Riflessioni in calce alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee n. C-489/07 del 03 settembre 2009
Avv. Antonio M. Polito
Nella sentenza in esame, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (C.G.C.E.) ha affrontato un interessante aspetto legato alla disciplina delle vendite a distanza.
In sintesi, la Corte si è espressa sulla conformità alle previsioni comunitarie relative al diritto di recesso nei contratti a distanza (Dir. n.97/7, art. 6, nn. 1 e 2) di una norma del Codice civile tedesco (art.312d del B. Gb.) che specifica che il consumatore potrebbe essere “tenuto a corrispondere un’indennità per il deterioramento della cosa derivante da un uso della stessa conforme alla sua destinazione, purché sia stato informato per iscritto, al più tardi al momento della conclusione del contratto, di tale conseguenza e della possibilità di evitarla”.
Si ricorda che, sul punto, la normativa europea è decisamente rigida, atteso che le uniche spese previste legittimamente a carico del consumatore in caso di un suo recesso nel rispetto delle modalità previste, possono essere “eventualmente” ed esclusivamente quelle “dirette di spedizione dei beni al mittente”.
A rigor di logica, pertanto, l’articolo presente nel codice tedesco prevede la possibilità di caricare il consumatore, che pur formalizza tempestivamente il suo recesso, di spese certamente non riconducibili alle sole “spese dirette di spedizione”, previste dal testo comunitario come unica e tassativa eccezione alla regola generale della gratuità per l’esercizio legittimo di tale diritto fondamentale nelle vendite a distanza.
Eppure la Corte di Giustizia, nel caso di specie, conclude diversamente, elaborando un principio che appare, a nostro modesto avviso, quantomeno opinabile.
A mo’ di premessa, la Corte ribadisce che certamente la disciplina comunitaria “osta ad una normativa nazionale la quale preveda in modo generico che il venditore possa chiedere al consumatore un’indennità per l’uso di un bene acquistato tramite un contratto a distanza nel caso in cui quest’ultimo ha esercitato il suo diritto di recesso entro i termini”.
Tuttavia, aggiunge, tale medesimo principio non contrasta con la possibilità che “venga imposto al consumatore il pagamento di un’indennità per l’uso di tale bene nel caso in cui egli abbia fatto uso del detto bene in un modo incompatibile con i principi del diritto civile, quali la buona fede o l’arricchimento senza giusta causa, a condizione che non venga pregiudicato il fine della direttiva e, in particolare, l’efficacia e l’effettività del diritto di recesso, ciò che spetta al giudice nazionale determinare”.
Prima di commentare la sentenza della Corte, per meglio valutare la sua portata, conviene a questo punto fare un passo indietro e vedere le specificità del caso concreto.
Accade allora che la ditta Tizia, sul suo sito web, propone l’acquisto di un computer portatile per € 278, con la specificazione, all’interno delle condizioni generali di vendita, inerente l’‘indennità’ sopra illustrata, conforme alla tipologia prevista dal codice civile tedesco. La Sig.ra Caia, nel dicembre 2005, acquista il computer il cui schermo, a ben otto mesi di distanza (agosto ‘06), manifesta un grave difetto che la ditta Tizia si rifiuta di eliminare gratuitamente. Nel novembre successivo, allora, la Sig.ra Caia, anche in virtù della mancata decorrenza dei termini di legge per illiceità nella forma di comunicazione della clausola (non espressamente comunicata per iscritto), formalizzava il suo recesso con richiesta di rimborso di quanto pagato e contestuale restituzione del computer difettoso. A fronte di tale richiesta, però, la ditta Tizia a sua volta richiedeva alla Sig.ra Caia l’‘indennità’ derivante dall’uso di otto mesi del computer portatile; indennità che veniva quantificata valutando il prezzo medio di un noleggio di computer portatile (€ 118,80 per 3 mesi) per il periodo di detenzione del bene, portando così a € 316,80 le pretese della ditta nei confronti della consumatrice.
A questo punto, il Giudice tedesco sospende il processo, promuovendo procedimento pregiudiziale di conformità di tale normativa interna con il principio di cui nella direttiva comunitaria sulle vendite a distanza.
La Corte, come abbiamo visto, si esprime a favore di una compatibilità con il principio comunitario di una normativa nazionale che giustifichi la richiesta di un’‘indennità’ in virtù di principi fondamentali del diritto civile nazionale, quali quelli di ‘buona fede’ o di ‘arricchimento senza causa’. Spetterà poi al Giudice interno, conclude la Corte, valutare la compatibilità di tali previsioni con l’‘effettività’ e l’‘efficacia’ del diritto di recesso.
In ordine a tale concluso, possono però venir mosse alcune osservazioni.
La prima, già accennata, è di natura letterale: il testo della direttiva, per quanto possa essere interpretato alla luce dei vari ‘considerata’ preliminari, si ritiene che difficilmente possa arrivare a comprendere, unitamente alle mere spese per costi di spedizione, ulteriori forme di ‘indennità’ in virtù di altrettanto fondamentali ‘principi di diritto civile’. E tanto, proprio in presenza di (altro limite di natura letterale) un ‘deterioramento della cosa derivante da un uso della stessa conforme alla sua destinazione’. Ricordiamo infatti il testo dell’art.6, n.1 della direttiva:
“1. Per qualunque contratto negoziato a distanza il consumatore ha diritto di recedere entro un termine di almeno sette giorni lavorativi senza alcuna penalità e senza specificarne il motivo. Le uniche spese eventualmente a carico del consumatore dovute all’esercizio del suo diritto di recesso sono le spese dirette di spedizione dei beni al mittente […]”.
Il secondo paragrafo ribadisce ulteriormente tale limitazione:
“2. Se il diritto di recesso è stato esercitato dal consumatore conformemente al presente articolo, il fornitore è tenuto al rimborso delle somme versate dal consumatore, che dovrà avvenire gratuitamente. Le uniche spese eventualmente a carico del consumatore dovute all’esercizio del suo diritto di recesso sono le spese dirette di spedizione dei beni al mittente. Tale rimborso deve avvenire nel minor tempo possibile e in ogni caso entro trenta giorni”.
Come si vede, il testo è attento a richiamare ogni forma di richiesta economica formulata al consumatore in conseguenza del suo recesso, giustificata sia in termini di ‘penalità’ che in termini di ‘spesa’, che in entrambi i casi non possono mai andare oltre il rimborso delle spese di spedizione di rinvio dei beni al mittente. Al contrario, peraltro, la decisione fa riferimento ad una ‘indennità’ (tipica definizione di un danno derivante da atto di per sé legittimo…) per un ‘uso del bene conforme alla sua destinazione’ ma ‘in modo incompatibile con i principi del diritto civile’, mentre la clausola del Codice civile tedesco fa riferimento ad un ‘deterioramento’ del bene derivante dal suo ‘uso’… Sembra che i principi richiamati siano allora differenti: il primo (quello richiamato in sentenza), di natura soggettiva, è comunque quello di una certa qual forma di ‘colpa’ del consumatore (per comportamento contrario a buona fede o per ingiustificato arricchimento), mentre il secondo (quello del codice civile tedesco), di natura oggettiva, derivante da una diminuita qualità del bene (‘deterioramento’). La differenza tra i due elementi appare evidente, anche solo dal punto di vista probatorio: del primo infatti bisognerebbe fornire adeguata prova, mentre il secondo si basa su elementi di natura pressoché oggettiva, essendo connaturati allo stesso concetto di ‘uso’ del bene. La differenza di interpretazione, sul punto, appare a nostro avviso macroscopica.
Infine, ulteriore dato letterale ostativo ad una interpretazione, diciamo così, estensiva di previsioni di spese a carico del consumatore in caso di esercizio del diritto di recesso, lo troviamo proprio nel 14° ‘considerando’ della direttiva, nel quale si specifica che “è necessario limitare ai costi diretti di spedizione dei beni al mittente gli oneri – qualora ve ne siano – derivanti al consumatore dall’esercizio del diritto di recesso, che altrimenti diventerà formale”. Qui troviamo, infatti, un’altra accezione del termine che definisce le possibili richieste economiche da parte del mittente/venditore, che qui vengono chiamate ‘oneri’. Termine che, aggiunto alle ‘spese’ ed alle ‘penalità’ dell’articolo, dovrebbe davvero coprire tutte le possibili tipologie di richieste economiche nei confronti del recedente.
Un secondo elemento degno di considerazione è poi la natura della previsione della direttiva, nonché il suo livello nella gerarchia delle fonti di diritto. Si intende, con questo, evidenziare da un lato la specialità della norma comunitaria nei confronti degli stessi ‘principi generali del diritto civile’, per cui non dovrebbe rappresentare un ostacolo risolvere per la prevalenza della prima sui secondi, anche nella traduzione di diritto interno. Dall’altro, si ritiene che la natura comunitaria di tale principio dovrebbe impedire al diritto interno di prevedere norme o principi in contrasto con essa, tanto in un’eventuale normativa speciale, che, a rigor di logica, nei principi generali del ‘codice civile’.
Terzo elemento di riflessione, è quello sull’‘effettività’ e sull’‘efficacia’ della previsione. Come vedremo meglio valutando i possibili effetti dell’interpretazione della Corte di Giustizia sul caso di specie, si nutre qualche dubbio che la previsione di tali ‘indennità’ possa essere compatibile con il principio di ‘effettività’ del diritto di recesso, soprattutto quando la prima viene corrisposta anche in caso di un uso del bene corretto e conforme alla sua natura. Di fatto, in questa maniera, si verrebbe a giustificare sempre e comunque un’‘indennità’ derivante dall’uso di tale bene, inconciliabile proprio con la funzione dell’istituto del diritto del recesso, mirante a tutelare il diritto del consumatore a “visionare il bene” o a “prendere conoscenza della natura del servizio”, comunque “prima della conclusione del contratto” (cfr. 14° ‘considerando’).
Peraltro, mirando a tutelare il consumatore in previsione (e quindi in attesa…) del perfezionamento del contratto, tale indennità potrebbe essere al contrario qualificata come forma di ingiustificato arricchimento da parte del venditore, in quanto renderebbe di fatto ‘patrimonializzabile’ in suo favore l’esercizio di un diritto legittimo e previsto dalla direttiva come puramente facoltativo (ovvero, senza necessità di motivazione) da parte del consumatore.
Ulteriore elemento sul quale è opportuno soffermarsi è poi quello della competenza riservata dalla Corte di Giustizia al giudice nazionale. Dopo aver infatti indicato come potenzialmente conforme ai dettami della direttiva una norma nazionale che stabilisca un’‘indennità’ per il consumatore che utilizzi il suo diritto di recesso con modalità contrarie ai principi di buona fede o di arricchimento senza causa, i giudici comunitari aggiungono che tanto si possa ritenere legittimo “a condizione che non venga pregiudicato il fine della detta direttiva e, in particolare, l’efficacia e l’effettività del diritto di recesso, ciò che spetta al giudice nazionale determinare”. L’individuazione della competenza del giudice nazionale nell’ultima parte del concluso, tuttavia, suggerisce qualche elemento di perplessità, atteso che sembrerebbe più appropriata alle regole del rapporto tra giudice comunitario e giudice interno, la soluzione per la quale quest’ultimo abbia competenza a valutare i concetti interni di buona fede, arricchimento senza causa e conformità di questi con la previsione di tale ‘indennità’, mentre il primo rimanga competente per le questioni inerenti la conformità delle previsioni interne con quelle di fonte comunitaria. Sulla base di tale premessa, allora, che rappresenta la regola generale in tema di riparto di competenze tra giudici nazionali e giudici della Corte di Giustizia, essendo il principio di ‘effettività’ e ‘efficacia’ del diritto di recesso di natura comunitaria (cfr. 14° considerando e art. 6 dir. 7/97, come ricordato nella stessa sentenza in commento), appare non conforme a tale regola generale la delega al giudice nazionale del giudizio in ordine alla compatibilità tra l’‘indennità’ prevista dal diritto interno e l’‘effettività’ e l’‘efficacia’ reali del diritto di recesso, attività di verifica di compatibilità di una norma interna con una di origine comunitaria, per natura di competenza del giudice europeo.
Se dovessimo allora trasferire le precedenti riflessioni al caso sottoposto all’attenzione della Corte di Giustizia, l’aspetto effettivamente sorprendente è che l’ammontare richiesto dalla ditta Tizia a titolo di ‘indennità’ per l’uso del bene (€ 318,80) è sensibilmente superiore al suo stesso valore iniziale (€ 278,00!), con il parossismo che alla Sig.ra Caia converrebbe più tenersi il computer difettoso che esercitare il suo diritto di recesso, nonostante la innegabile peculiarità di un recesso esercitato otto mesi dopo la spedizione del bene… Perché poi e, soprattutto, con quale motivazione giuridica quantificare l’‘indennità’ con gli stessi strumenti (spese di noleggio di un computer) con i quali si valuta un danno per un’azione commessa illegittimamente?
Al contrario, se è vero che la Corte di Giustizia non giustifica comunque comportamenti contrari alla buona fede, è anche vero che ben difficilmente potrebbe addebitarsi un simile comportamento alla Sig.ra Caia, atteso che è stata proprio l’illegittimità delle modalità di vendita della ditta Tizia a giustificare un termine di recesso così lungo!
E’ vero allora che la Corte ha rinviato la trattazione del caso specifico al giudice tedesco per la valutazione dei concreti elementi di fatto, che difficilmente si ritiene potranno giustificare le richieste di rimborso formulate dalla ditta Tizia, ma è anche vero che nel farlo, ha offerto al giudice nazionale elementi che, a nostro sommesso parere, ampliano in maniera prima inimmaginabile i rigidi orizzonti delle limitazioni al diritto di recesso dei consumatori europei.
(originariamente pubblicato in data 15.10.2009)
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