giovedì 30 settembre 2010

Corecom e Corte di Giustizia UE


Un ‘diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva’, ma obbligatoria…
Breve commento alle conclusioni dell’Avvocato Generale C.G.C.E. Juliane Kokott del 19 novembre 2009 sulla obbligatorietà del tentativo di conciliazione presso il Co.Re.Com

Avv. Antonio M. Polito

Interessata da una questione pregiudiziale del Giudice di Pace di Ischia, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (C.G.C.E.) si dovrà a breve pronunciare (cause C-317 – 320/08) sulla compatibilità tra la previsione dell’art.3 e 13 dell’Allegato A della delibera 173/07/CONS, che dichiara improcedibile il ricorso in sede giurisdizionale in materia di telecomunicazioni non preceduto dal tentativo di conciliazione presso il Corecom, e l’art.34 della direttiva 2002/22/CE, dedicato alla ‘Risoluzione extragiudiziale delle controversie’.
In particolare, il Giudice del rinvio, nel caso di specie, “vede nel carattere obbligatorio della conciliazione un ostacolo illegittimo alla tutela giurisdizionale”, motivo dell’interessamento in via pregiudiziale della Corte.
Il 19 novembre u.s. sono state dunque pubblicate le ‘conclusioni generali’ dell’Avvocato Generale (A.G.) Juliane Kokott che già ben rappresentano i termini della questione, che andiamo brevemente a commentare.
In realtà, la questione verte anche sulla impossibilità di adibire il Corecom da parte dei ricorrenti, ma limiteremo la nostra riflessione sulla parte che più direttamente riguarda l’organo conciliativo.
Preliminarmente, conviene richiamare il contenuto degli articoli oggetto di interpretazione.
.           Il quarantasettesimo ‘considerando’ della direttiva 2002/22, relativo alla risoluzione delle controversie, è così formulato:
«[…] Devono essere definite procedure efficaci di risoluzione delle controversie insorte tra consumatori, da un lato, e dall’altro, le imprese che forniscono servizi di comunicazione accessibili al pubblico. Gli Stati membri dovrebbero tener pienamente conto della raccomandazione 98/257/CE della Commissione, del 30 marzo 1998, riguardante i principi applicabili agli organi responsabili dalla risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo».
Quindi, l’art. 34 della direttiva 2002/22, rubricato «Risoluzione extragiudiziale delle controversie», dispone quanto segue:
«1. Gli Stati membri provvedono affinché esistano procedure extragiudiziali trasparenti, semplici e poco costose per l’esame delle controversie irrisolte, in cui sono coinvolti i consumatori, relative alle questioni contemplate dalla presente direttiva. Gli Stati membri provvedono affinché tali procedure consentano un’equa e tempestiva risoluzione delle controversie e, nei casi giustificati, possono adottare un sistema di rimborso e/o di indennizzo. Gli Stati membri possono estendere gli obblighi di cui al presente paragrafo alle controversie che coinvolgono altri utenti finali.
2. Gli Stati membri provvedono affinché le rispettive legislazioni nazionali non ostacolino la creazione, a un adeguato livello territoriale, di uffici e servizi on line per l’accettazione di reclami, incaricati di facilitare l’accesso dei consumatori e degli utenti finali alle strutture di composizione delle controversie. [...]
4. Il presente articolo non pregiudica le procedure giudiziarie nazionali».
            L’ art. 3 dell’allegato A della delibera 173/07/CONS prevede invece quanto segue:
«1.      Per le controversie di cui all’articolo 2 comma 1, il ricorso in sede giurisdizionale è improcedibile fino a che non sia stato esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi al Co.re.com [Comitato regionale per le comunicazioni] competente per territorio munito di delega a svolgere la funzione conciliativa, ovvero dinanzi agli organi di risoluzione extragiudiziale delle controversie di cui all’articolo 13.
2.      Ove il Co.re.com territorialmente competente non sia titolare della delega di cui al comma 1, il tentativo obbligatorio di conciliazione dovrà essere esperito dinanzi agli organi di cui all’articolo 13.
3.      Il termine per la conclusione della procedura conciliativa è di trenta giorni decorrenti dalla data di proposizione dell’istanza; dopo la scadenza di tale termine le parti possono proporre ricorso giurisdizionale anche ove la procedura non sia stata conclusa».
            L’interpretazione della fattispecie da parte dell’Avvocato Generale si fonda, oltre che sull’esegesi testuale delle norme comunitarie, sul principio comunitario del “diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva”.
            Dopo aver infatti sottolineato che la normativa comunitaria raccomanda procedure “trasparenti”, “semplici” e “poco costose”, finalizzate ad un’“equa” e “tempestiva” risoluzione delle controversie, l’A.G. fa subito presente come, in ogni caso, l’articolo della direttiva comunque non pregiudichi le “procedure giudiziarie nazionali” e dato che “il requisito […] [della] condizione di ricevibilità di un ricorso rientra nell’ambito della regolamentazione delle procedure giurisdizionali degli Stati membri, la questione non trova quindi esaustiva regolamentazione nella direttiva 2002/22” (punto 29 concl.). Pertanto, conclude l’A.G. sul punto, “se la risoluzione extragiudiziale delle controverse soddisfa i criteri di cui all’art.34 della direttiva 2002/22, vale a dire se essa è trasparente, semplice e poco costosa, allora la stessa direttiva non osta alla configurazione di una risoluzione obbligatoria delle controversie” (punto 30 concl.).
            Nel caso di specie, allora, dato che la procedura innanzi al Co.Re.Com è gratuita e che la competenza del Co.Re.Com (ovvero di altri organismi di conciliazione) è stata disposta con disposizione di Legge, tali requisiti rispettano certamente le previsioni di cui alla direttiva comunitaria.
            Ma ritorniamo al ‘principio di effettività’ della giurisdizione.
            Dopo aver constatato che, effettivamente, “un ricorso giurisdizionale è irricevibile nel caso di mancato esperimento” del tentativo di conciliazione, che diviene pertanto formalmente obbligatorio prima di interessare l’Organo giudicante, l’A.G. ammette come “in questo modo viene posto un ulteriore ostacolo all’accesso alla tutela giurisdizionale” che diviene, nei fatti, “una limitazione dell’accesso alla tutela giurisdizionale”. “Di conseguenza”, conclude l’A.G., da questo punto di vista “sussiste una violazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva” (punto 42).
Tuttavia, specificano le conclusioni, “il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva non si figura come prerogativa assoluta” ma può, al contrario, “soggiacere a restrizioni”, purché queste corrispondano ad “obiettivi di interesse generale” e non costituiscano, “rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti”.
Nel caso di specie, osserva quindi l’A.G., “in definitiva, tra lo scopo perseguito di una soluzione della controversia più rapida, con costi più contenuti e funzionale agli interessi[,] e i possibili svantaggi dell’obbligo di esperimento di una procedura di conciliazione obbligatoria[,] non sussiste alcuna sproporzione manifesta”, anche perché “si deve concordare con il governo italiano che una procedura di composizione extragiudiziale semplicemente facoltativa non sarebbe efficace tanto quanto una procedura obbligatoria”…
Da qui, conclude l’A.G., la procedura obbligatoria approntata dal governo italiano apparirebbe conforme all’art.34 Dir. 2002/22/CE.
Ma su tale concluso si rendono necessarie le seguenti riflessioni:
a)      Nell’interesse di chi deve considerarsi ‘opportuna’ una certa procedura? Nell’‘interesse generale’, ovvero nell’interesse esclusivo dei consumatori, destinatari specifici della direttiva? Sembra che tale importante specificazione non venga sufficientemente affrontata dall’Illustre A.G.
E soprattutto, può davvero l’interesse del consumatore essere contratto in rapporto all’interesse contrario di non essere soggetto passivo di un’immediata azione giudiziaria, per evitare un contenzioso ed abbassare i propri costi di amministrazione? Di fatto, eccezion fatta per i provvedimenti d’urgenza ex art.700 C.p.c., che pacificamente non abbisognano di tentativo di conciliazione, l’azionabilità di ogni controversia viene rimandata di almeno 30 giorni…
b)      In ogni caso, perché, se tale procedura dovrebbe agevolare una “efficace” e celere risoluzione delle controversie, non renderla facoltativa, nell’interesse, ancora una volta, del consumatore, che sarebbe (dovrebbe essere) libero di scegliere (e capire da solo) l’opportunità di intraprendere la strada che ritiene più opportuna?
Si dirà, a questo punto: ma la procedura, essendo gratuita, permette proprio la celere e ‘gratuita’ possibilità di avere un confronto con la controparte e far valere, innanzi ad un Collegio, le proprie ragioni senza spese di procedura e di difensori. Ma a questo, sarebbe agevole replicare che
c)      Ammessa che quella della ‘gratuità’ e della self-defence sia una strada effettivamente produttiva per la reale difesa dei diritti del consumatore – utente (che di fatto, si trova come controparte sempre e comunque un legale professionista della Società convenuta…), in ogni caso, in assenza di accordo conciliativo, si ritrova puntualmente obbligato ad esperire una ordinaria causa civile, con tutti i condizionamenti economici del caso (costi procedura, spese legali, ecc. ecc.)…
Meglio e più lungimirante sarebbe stato, invece, prevedere un rito processuale speciale, celere e senza spese di procedura iniziali (come quello del Lavoro, operativo da oltre 35 anni…) che avrebbe rappresentato da un lato uno strumento concreto e sostanziale di tutela giudiziaria degli interessi dei consumatori, e dall’altro avrebbe obbligato le Società di Telecomunicazioni a rispondere sempre e comunque innanzi ad un’Autorità giudicante dello Stato.
Verificheremo all’esito della decisione della Commissione l’eventuale valutazione di tali importanti punti.
             
                       (originariamente pubblicato in data 30.11.2009)

Diritto di recesso con tassa di indennità?

Riflessioni in calce alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee n. C-489/07 del 03 settembre 2009
                             Avv. Antonio M. Polito

Nella sentenza in esame, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (C.G.C.E.) ha affrontato un interessante aspetto legato alla disciplina delle vendite a distanza.
           In sintesi, la Corte si è espressa sulla conformità alle previsioni comunitarie relative al diritto di recesso nei contratti a distanza (Dir. n.97/7, art. 6, nn. 1 e 2) di una norma del Codice civile tedesco (art.312d del B. Gb.) che specifica che il consumatore potrebbe essere “tenuto a corrispondere un’indennità per il deterioramento della cosa derivante da un uso della stessa conforme alla sua destinazione, purché sia stato informato per iscritto, al più tardi al momento della conclusione del contratto, di tale conseguenza e della possibilità di evitarla”.
           Si ricorda che, sul punto, la normativa europea è decisamente rigida, atteso che le uniche spese previste legittimamente a carico del consumatore in caso di un suo recesso nel rispetto delle modalità previste, possono essere “eventualmente” ed esclusivamente quelle “dirette di spedizione dei beni al mittente”.
           A rigor di logica, pertanto, l’articolo presente nel codice tedesco prevede la possibilità di caricare il consumatore, che pur formalizza tempestivamente il suo recesso, di spese certamente non riconducibili alle sole “spese dirette di spedizione”, previste dal testo comunitario come unica e tassativa eccezione alla regola generale della gratuità per l’esercizio legittimo di tale diritto fondamentale nelle vendite a distanza.
           Eppure la Corte di Giustizia, nel caso di specie, conclude diversamente, elaborando un principio che appare, a nostro modesto avviso, quantomeno opinabile.
           A mo’ di premessa, la Corte ribadisce che certamente la disciplina comunitaria “osta ad una normativa nazionale la quale preveda in modo generico che il venditore possa chiedere al consumatore un’indennità per l’uso di un bene acquistato tramite un contratto a distanza nel caso in cui quest’ultimo ha esercitato il suo diritto di recesso entro i termini”.
Tuttavia, aggiunge, tale medesimo principio non contrasta con la possibilità che “venga imposto al consumatore il pagamento di un’indennità per l’uso di tale bene nel caso in cui egli abbia fatto uso del detto bene in un modo incompatibile con i principi del diritto civile, quali la buona fede o l’arricchimento senza giusta causa, a condizione che non venga pregiudicato il fine della direttiva e, in particolare, l’efficacia e l’effettività del diritto di recesso, ciò che spetta al giudice nazionale determinare”.
Prima di commentare la sentenza della Corte, per meglio valutare la sua portata, conviene a questo punto fare un passo indietro e vedere le specificità del caso concreto.
Accade allora che la ditta Tizia, sul suo sito web, propone l’acquisto di un computer portatile per € 278, con la specificazione, all’interno delle condizioni generali di vendita, inerente l’‘indennità’ sopra illustrata, conforme alla tipologia prevista dal codice civile tedesco. La Sig.ra Caia, nel dicembre 2005, acquista il computer il cui schermo, a ben otto mesi di distanza (agosto ‘06), manifesta un grave difetto che la ditta Tizia si rifiuta di eliminare gratuitamente. Nel novembre successivo, allora, la Sig.ra Caia, anche in virtù della mancata decorrenza dei termini di legge per illiceità nella forma di comunicazione della clausola (non espressamente comunicata per iscritto), formalizzava il suo recesso con richiesta di rimborso di quanto pagato e contestuale restituzione del computer difettoso. A fronte di tale richiesta, però, la ditta Tizia a sua volta richiedeva alla Sig.ra Caia l’‘indennità’ derivante dall’uso di otto mesi del computer portatile; indennità che veniva quantificata valutando il prezzo medio di un noleggio di computer portatile (€ 118,80 per 3 mesi) per il periodo di detenzione del bene, portando così a € 316,80 le pretese della ditta nei confronti della consumatrice.
A questo punto, il Giudice tedesco sospende il processo, promuovendo procedimento pregiudiziale di conformità di tale normativa interna con il principio di cui nella direttiva comunitaria sulle vendite a distanza.
La Corte, come abbiamo visto, si esprime a favore di una compatibilità con il principio comunitario di una normativa nazionale che giustifichi la richiesta di un’‘indennità’ in virtù di principi fondamentali del diritto civile nazionale, quali quelli di ‘buona fede’ o di ‘arricchimento senza causa’. Spetterà poi al Giudice interno, conclude la Corte, valutare la compatibilità di tali previsioni con l’‘effettività’ e l’‘efficacia’ del diritto di recesso.
In ordine a tale concluso, possono però venir mosse alcune osservazioni.
La prima, già accennata, è di natura letterale: il testo della direttiva, per quanto possa essere interpretato alla luce dei vari ‘considerata’ preliminari, si ritiene che difficilmente possa arrivare a comprendere, unitamente alle mere spese per costi di spedizione, ulteriori forme di ‘indennità’ in virtù di altrettanto fondamentali ‘principi di diritto civile’. E tanto, proprio in presenza di (altro limite di natura letterale) un ‘deterioramento della cosa derivante da un uso della stessa conforme alla sua destinazione’. Ricordiamo infatti il testo dell’art.6, n.1 della direttiva:
1. Per qualunque contratto negoziato a distanza il consumatore ha diritto di recedere entro un termine di almeno sette giorni lavorativi senza alcuna penalità e senza specificarne il motivo. Le uniche spese eventualmente a carico del consumatore dovute all’esercizio del suo diritto di recesso sono le spese dirette di spedizione dei beni al mittente […]”.
Il secondo paragrafo ribadisce ulteriormente tale limitazione:
2. Se il diritto di recesso è stato esercitato dal consumatore conformemente al presente articolo, il fornitore è tenuto al rimborso delle somme versate dal consumatore, che dovrà avvenire gratuitamente. Le uniche spese eventualmente a carico del consumatore dovute all’esercizio del suo diritto di recesso sono le spese dirette di spedizione dei beni al mittente. Tale rimborso deve avvenire nel minor tempo possibile e in ogni caso entro trenta giorni”.
Come si vede, il testo è attento a richiamare ogni forma di richiesta economica formulata al consumatore in conseguenza del suo recesso, giustificata sia in termini di ‘penalità’ che in termini di ‘spesa’, che in entrambi i casi non possono mai andare oltre il rimborso delle spese di spedizione di rinvio dei beni al mittente. Al contrario, peraltro, la decisione fa riferimento ad una ‘indennità’ (tipica definizione di un danno derivante da atto di per sé legittimo…) per un ‘uso del bene conforme alla sua destinazione’ ma ‘in modo incompatibile con i principi del diritto civile’, mentre la clausola del Codice civile tedesco fa riferimento ad un ‘deterioramento’ del bene derivante dal suo ‘uso’… Sembra che i principi richiamati siano allora differenti: il primo (quello richiamato in sentenza), di natura soggettiva, è comunque quello di una certa qual forma di ‘colpa’ del consumatore (per comportamento contrario a buona fede o per ingiustificato arricchimento), mentre il secondo (quello del codice civile tedesco), di natura oggettiva, derivante da una diminuita qualità del bene (‘deterioramento’). La differenza tra i due elementi appare evidente, anche solo dal punto di vista probatorio: del primo infatti bisognerebbe fornire adeguata prova, mentre il secondo si basa su elementi di natura pressoché oggettiva, essendo connaturati allo stesso concetto di ‘uso’ del bene. La differenza di interpretazione, sul punto, appare a nostro avviso macroscopica.
Infine, ulteriore dato letterale ostativo ad una interpretazione, diciamo così, estensiva di previsioni di spese a carico del consumatore in caso di esercizio del diritto di recesso, lo troviamo proprio nel 14° ‘considerando’ della direttiva, nel quale si specifica che “è necessario limitare ai costi diretti di spedizione dei beni al mittente gli oneri – qualora ve ne siano – derivanti al consumatore dall’esercizio del diritto di recesso, che altrimenti diventerà formale”. Qui troviamo, infatti, un’altra accezione del termine che definisce le possibili richieste economiche da parte del mittente/venditore, che qui vengono chiamate ‘oneri’. Termine che, aggiunto alle ‘spese’ ed alle ‘penalità’ dell’articolo, dovrebbe davvero coprire tutte le possibili tipologie di richieste economiche nei confronti del recedente.
Un secondo elemento degno di considerazione è poi la natura della previsione della direttiva, nonché il suo livello nella gerarchia delle fonti di diritto. Si intende, con questo, evidenziare da un lato la specialità della norma comunitaria nei confronti degli stessi ‘principi generali del diritto civile’, per cui non dovrebbe rappresentare un ostacolo risolvere per la prevalenza della prima sui secondi, anche nella traduzione di diritto interno. Dall’altro, si ritiene che la natura comunitaria di tale principio dovrebbe impedire al diritto interno di prevedere norme o principi in contrasto con essa, tanto in un’eventuale normativa speciale, che, a rigor di logica, nei principi generali del ‘codice civile’.
Terzo elemento di riflessione, è quello sull’‘effettività’ e sull’‘efficacia’ della previsione. Come vedremo meglio valutando i possibili effetti dell’interpretazione della Corte di Giustizia sul caso di specie, si nutre qualche dubbio che la previsione di tali ‘indennità’ possa essere compatibile con il principio di ‘effettività’ del diritto di recesso, soprattutto quando la prima viene corrisposta anche in caso di un uso del bene corretto e conforme alla sua natura. Di fatto, in questa maniera, si verrebbe a giustificare sempre e comunque un’‘indennità’ derivante dall’uso di tale bene, inconciliabile proprio con la funzione dell’istituto del diritto del recesso, mirante a tutelare il diritto del consumatore a “visionare il bene” o a “prendere conoscenza della natura del servizio”, comunque “prima della conclusione del contratto” (cfr. 14° ‘considerando’).
Peraltro, mirando a tutelare il consumatore in previsione (e quindi in attesa…) del perfezionamento del contratto, tale indennità potrebbe essere al contrario qualificata come forma di ingiustificato arricchimento da parte del venditore, in quanto renderebbe di fatto ‘patrimonializzabile’ in suo favore l’esercizio di un diritto legittimo e previsto dalla direttiva come puramente facoltativo (ovvero, senza necessità di motivazione) da parte del consumatore.
Ulteriore elemento sul quale è opportuno soffermarsi è poi quello della competenza riservata dalla Corte di Giustizia al giudice nazionale. Dopo aver infatti indicato come potenzialmente conforme ai dettami della direttiva una norma nazionale che stabilisca un’‘indennità’ per il consumatore che utilizzi il suo diritto di recesso con modalità contrarie ai principi di buona fede o di arricchimento senza causa, i giudici comunitari aggiungono che tanto si possa ritenere legittimo “a condizione che non venga pregiudicato il fine della detta direttiva e, in particolare, l’efficacia e l’effettività del diritto di recesso, ciò che spetta al giudice nazionale determinare”. L’individuazione della competenza del giudice nazionale nell’ultima parte del concluso, tuttavia, suggerisce qualche elemento di perplessità, atteso che sembrerebbe più appropriata alle regole del rapporto tra giudice comunitario e giudice interno, la soluzione per la quale quest’ultimo abbia competenza a valutare i concetti interni di buona fede, arricchimento senza causa e conformità di questi con la previsione di tale ‘indennità’, mentre il primo rimanga competente per le questioni inerenti la conformità delle previsioni interne con quelle di fonte comunitaria. Sulla base di tale premessa, allora, che rappresenta la regola generale in tema di riparto di competenze tra giudici nazionali e giudici della Corte di Giustizia, essendo il principio di ‘effettività’ e ‘efficacia’ del diritto di recesso di natura comunitaria (cfr. 14° considerando e art. 6 dir. 7/97, come ricordato nella stessa sentenza in commento), appare non conforme a tale regola generale la delega al giudice nazionale del giudizio in ordine alla compatibilità tra l’‘indennità’ prevista dal diritto interno e l’‘effettività’ e l’‘efficacia’ reali del diritto di recesso, attività di verifica di compatibilità di una norma interna con una di origine comunitaria, per natura di competenza del giudice europeo.
Se dovessimo allora trasferire le precedenti riflessioni al caso sottoposto all’attenzione della Corte di Giustizia, l’aspetto effettivamente sorprendente è che l’ammontare richiesto dalla ditta Tizia a titolo di ‘indennità’ per l’uso del bene (€ 318,80) è sensibilmente superiore al suo stesso valore iniziale (€ 278,00!), con il parossismo che alla Sig.ra Caia converrebbe più tenersi il computer difettoso che esercitare il suo diritto di recesso, nonostante la innegabile peculiarità di un recesso esercitato otto mesi dopo la spedizione del bene… Perché poi e, soprattutto, con quale motivazione giuridica quantificare l’‘indennità’ con gli stessi strumenti (spese di noleggio di un computer) con i quali si valuta un danno per un’azione commessa illegittimamente?
Al contrario, se è vero che la Corte di Giustizia non giustifica comunque comportamenti contrari alla buona fede, è anche vero che ben difficilmente potrebbe addebitarsi un simile comportamento alla Sig.ra Caia, atteso che è stata proprio l’illegittimità delle modalità di vendita della ditta Tizia a giustificare un termine di recesso così lungo!
E’ vero allora che la Corte ha rinviato la trattazione del caso specifico al giudice tedesco per la valutazione dei concreti elementi di fatto, che difficilmente si ritiene potranno giustificare le richieste di rimborso formulate dalla ditta Tizia, ma è anche vero che nel farlo, ha offerto al giudice nazionale elementi che, a nostro sommesso parere, ampliano in maniera prima inimmaginabile i rigidi orizzonti delle limitazioni al diritto di recesso dei consumatori europei.
(originariamente pubblicato in data 15.10.2009)

La vera storia delle spese di spedizione delle fatture Telecom

La vera storia delle spese di spedizione delle fatture Telecom: un commento alle sentenze della Cassazione nn. 3532 e 5333 del 13 febbraio e 5 marzo 2009

Avv. Antonio M. Polito
La questione inerente il divieto di addebitare le spese di spedizione delle fatture Telecom al cliente, è stata recentemente oggetto di diffuso interesse da parte sia delle associazioni dei consumatori, che delle nostre Corti, di merito e di legittimità.
Più precisamente, a fronte di una prima tornata di pronunce favorevoli all’ipotesi dell’illegittimità (e quindi del relativo rimborso da parte della Società telefonica) delle spese di spedizione fattura da parte di diverse Corti di merito (di primo e secondo grado), tra il febbraio ed il marzo di quest’anno sono state emanate da parte del Giudice delle Leggi le sentenze sopra citate, che sembrano aver definitivamente spento ogni legittimità in ordine a tale pretesa, cassando le sentenze dei giudici precedenti.
O per lo meno, questa è stata la generale ‘vulgata’, tanto sui quotidiani che su numerose pagine web ancora disponibili in linea.
In realtà, entrambe le sentenze in epigrafe hanno sì cassato le sentenze delle Corti di Merito, negando il diritto dei consumatori al rimborso, ma evidenziando altresì, nell’argomentare delle loro interpretazioni, importanti rilievi giuridici che, al contrario, danno atto della piena fondatezza delle pretese degli utenti telefonici.
L’assunto può sembrare al momento sibillino, ai limiti del paradossale, ma sarà subito chiarito da un attento esame delle due sentenze.
Il divieto di addebitare le spese di fattura all’utente è stato sollevato sulla base dell’art.21, comma VIII, del D.P.R. n.633/1972 (c.d. Legge sull’Iva), per come modificato da altro D.P.R. del 1974, il quale recita che “le spese di emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità non possono formare oggetto d’addebito a qualsiasi titolo”.
Nella sentenza di febbraio si ricorda che il Tribunale di Paola dichiarava comprensive nella ‘emissione della fattura’ le spese di invio della stessa, negando così la possibilità di addebito, mentre il Tribunale di Siderno – Sez. Distaccata di Locri, nel caso oggetto di sentenza del marzo successivo, riteneva tali spese inerenti non la ‘emissione’ della fattura, bensì la ‘trasmissione’ della stessa, concludendo per il loro legittimo addebito al cliente, peraltro oggetto di espressa previsione nelle ‘condizioni generali di abbonamento’ con Telecom (art.14).
Le argomentazioni di Telecom a favore di una addebitabilità delle spese possono essere così riassunte: in realtà, l’emissione di una fattura è cosa diversa dalla sua spedizione, attività diversa e separata che segue l’emissione, ma non si identifica con essa. Tant’è, afferma la Telecom, che la spedizione è attività meramente eventuale, in quanto la fattura può anche essere consegnata a mano ovvero trasmessa via e-mail (vedremo a breve quanto sia importante tale ultima argomentazione…). Pertanto, aggiunge Telecom, tali diversi momenti sono da distinguere (e disgiungere) anche sotto il profilo economico. A favore del ragionamento di Telecom, si presentano poi anche altre argomentazioni: 1) il contenuto dell’art.1196 C.c., secondo il quale le spese collegate al pagamento sono a carico del debitore; 2) gli artt. 1245 e 1475 C.c., che statuiscono che le spese di trasporto o accessorie, salvo diversa pattuizione, sono a carico del compratore; 3) le spese di invio fattura non rientrano, proprio per la loro natura di ‘rimborsi’ per costi sostenuti, a livello fiscale, neanche nelle previsioni sul calcolo della ‘base imponibile’ di cui all’art.15, co.I, n.3 del D.P.R. 633/1972; 4) in ogni caso, le ‘condizioni generali del contratto’ Telecom prevedono espressamente, all’art.14, che tali spese vengano addebitate all’utente.
Prima di pronunciarsi, la Corte di Cassazione, in entrambe le sentenze, premette che il suo esame, conformemente alla tipologia del suo Giudizio, non può essere “diretto a riscontrare se questa clausola è sotto ogni aspetto valida, ma se è conforme a diritto la decisione del tribunale, che l’ha dichiarata nulla per contrasto con la norma contenuta nell’art. 21, comma 8, della legge Iva”.
Partendo da tali presupposti, allora, entrambe le sentenze concludono che effettivamente, nei casi di specie, non si potesse parlare di ‘nullità’ di tali clausole, anche perché, accogliendo l’argomentazione di Telecom sul punto, ‘consegna o spedizione della fattura non costituiscono un segmento della fatturazione, ma il momento fino al quale e prima del quale non si può considerare compiuta’. Ma è altresì vero, concludono entrambe le sentenze, che “se le parti si accordano nel senso che il pagamento possa essere fatto dall’utente dietro ricevimento della fattura che a spese dell’utente e mediante spedizione per posta gli è inviata dal gestore, questa spesa che per contratto deve essere supportata dall’utente è anticipata dal gestore e così rientra tra quelle cui si applica l’art.15, n.3 della legge Iva”.
Ma vi è un ultimo, importante motivo di ricorso sul quale la Corte è stata chiamata a rispondere e sul quale, a circa un mese di distanza, offre un parere diversamente argomentato.
Tale ulteriore motivo di ricorso è fondato sul contenuto dell’art.53[1] del regolamento di servizio e delle condizioni di abbonamento al servizio telefonico (D.M. 197/1997 che recepisce il D.P.R. 523/1984), che dispone che la società telefonica “provvede a spedire [la fattura] al domicilio degli abbonati addebitando le sole spese postali […] salvo la facoltà degli abbonati di provvedere senza addebito di spese al ritiro delle bollette presso gli uffici della società”.
In ordine a tale argomentazione in diritto, la sentenza di febbraio si limita a sottolineare come “Telecom mostra di non aver trasfuso nel […] contenuto [delle condizioni generali di contratto] la salvezza di quella facoltà – che l’utente ha ed alla quale la Telecom si è invece più volte richiamata nei suoi scritti difensivi – di scegliere modalità alternative di ricezione ed in particolare quella del ritiro presso gli uffici della stessa Telecom, cui ora si è venuta ad aggiungere la trasmissione telematica”. Tuttavia la Corte, in tale primo giudicato, ha concluso che, “escluso che la questione oggetto della causa trovi la sua soluzione nell’art.21, comma VIII, della legge Iva”, non è Suo compito, bensì quello del giudice del rinvio, “saggiare, in rapporto all’art.53 della convenzione, l’efficacia della clausola contenuta nelle condizioni generali di contratto”.
Fortunatamente, però, la sentenza del marzo di quest’anno va ben oltre tale primo già importante ‘affondo’, che contiene in nuce quanto meglio illustrato meno di un mese dopo.
Nel secondo caso, infatti, la Corte non si limita più a sottolineare i limiti del Suo giudicando, ma affronta più approfonditamente la questione, specificando come, in realtà, la mancanza di Telecom in ordine alla comunicazione di modalità alternative (e a costo zero) di trasmissione della fattura, non possa verosimilmente comportare la ‘nullità’ della clausola (come evidentemente dichiarato dal Giudice di Prime Cure), dato il mancato contrasto con norme imperative.
Tuttavia, continua la Corte, di tali clausole “si sarebbe eventualmente potuta derivare la loro annullabilità, come è quando il concreto contenuto assunto dal contratto, per sé lecito, dipende dal non aver un parte osservato nella conclusione del contratto norme di comportamento poste a tutela dell’altra”. Ma tale tipologia, nel caso di specie, non era stata “oggetto di eccezione da parte dell’utente, e pertanto non poteva essere oggetto di valutazione da parte della Corte.
Peraltro, specifica ancora la Corte in marzo, all’utente, data la mancata esplicitazione, nel contratto sottoscritto, della facoltà “offerta dal D.P.R. 523 DEL 1984, art.53” (vedi nota 1), non può neanche attribuirsene il suo mancato esercizio.
Infine, la Corte non si è neanche potuta pronunciare in ordine all’ulteriore eccezione formulata dal ricorrente, relativa alla sottoposizione ad Iva, da parte di Telecom, delle stesse spese di spedizione, attesa la sua inammissibilità procedurale per essere “questione nuova”.
Come si anticipava, dunque, contrariamente ad una superficiale vulgata per la quale il Giudice delle Leggi avrebbe negato il diritto degli utenti al rimborso delle spese di invio fattura nei confronti di Telecom, in realtà la Corte di Cassazione ha non solo, in un caso, rinviato al Giudice di Merito la questione da decidere sui principi di diritto indicati, ma ha anche, in entrambe le sentenze, analizzato approfonditamente argomentazioni giuridiche che potranno conseguire conclusioni, sia da parte dei Giudici di Merito, che di quello di Legittimità, diametralmente opposte a quelle risultanti dalle questioni esaminate.


[1] N.d.r.: in verità, il riferito ‘art.53’ non è presente nel testo del D.M. 197/1997 (che ha solo 45 articoli), così come il testo attribuito dalla Corte all’art.53 non è conforme a nessun altro articolo rinvenibile all’interno del medesimo D.M. Non è stato neanche possibile verificare la presenza di tale testo all’interno del D.P.R. 523/1984, composto di 6 articoli solamente, di cui l’ultimo di riferimento alle singole convenzioni, omesso dalle principali banche dati giuridiche. Tali riflessioni, unitamente a quelle della Corte, pertanto, si basano dando per scontata tanto l’esistenza che la validità di tale testo normativo il cui contenuto, a causa probabilmente di un errore di trascrizione, non è allo stato verificabile.

(originariamente pubblicato in data 30.09.2009)

Ahi ahi ahi... Alpitour!

                     Il recentissimo provvedimento con il quale l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (A.G.CM.) ha condannato duramente il principale Tour Operator italiano.

                                                   Avv. Antonio M. Polito 

Il 25 giugno u.s. l’A.G.C.M. (provvedimento n. 20011/2009) ha emesso una severa condanna nei confronti del maggiore Tour Operator (T.O.) italiano, la Alpitour S.p.A., proprietaria dei marchi Alpitour, Francorosso, Viaggidea, Volando, Karambola e Viaggi Bravo, per pratica commerciale aggressiva e scorretta ex artt. 20, 21 co.I lett.d), 22, 24 e 25 del Codice del Consumo.
Oggetto della contestazione e quindi della condanna, segnalata sia da singoli consumatori che dalla Assoviaggi (l’associazione rappresentativa delle Agenzie di Viaggio e Turismo (A.d.V.) in Italia e in Europa), è stato il richiesto adeguamento del costo di pacchetti turistici ‘tutto compreso’, già sottoscritti e parzialmente pagati, motivato da intervenuti aumenti del costo del carburante aereo (c.d. ‘fuel surcharge’).
La disciplina dettata dal Codice del Consumo, a riguardo, è molto precisa e dettagliata. L’Art. 90 specifica infatti, sotto il titolo di ‘revisione del prezzo’, che “1. la revisione del prezzo forfetario di vendita di pacchetto turistico convenuto dalle parti è ammessa solo quando sia stata espressamente prevista nel contratto, anche con la definizione delle modalità di calcolo, in conseguenza della variazione del costo del trasporto, del carburante, dei diritti e delle tasse quali quelle di atterraggio, di sbarco o imbarco nei porti o negli aeroporti, del tasso di cambio applicato. I costi devono essere adeguatamente documentati dal venditore. 2. La revisione al rialzo non può in ogni caso essere superiore al dieci per cento del prezzo nel suo originario ammontare. 3. Quando l’aumento del prezzo supera la percentuale di cui al comma 2, l’acquirente può recedere dal contratto, previo rimborso delle somme già versate alla controparte. 4. Il prezzo non può in ogni caso essere aumentato nei venti giorni che precedono la partenza”.
Peculiarità della disciplina è poi che, come nel caso di specie, a formalizzare nei confronti dei consumatori la richiesta di aumento non sia direttamente il T.O. (Alpitour), bensì la singola A.d.V. con la quale l’acquirente ha avuto diretto rapporto commerciale. In estrema sintesi, si viene a creare una sorta di effetto ‘a cascata’, nel quale gli eventuali aumenti dei costi, registrati dalle compagnie aero – portuali, vengono richiesti al T.O. (Alpitour), che a sua volta li richiede all’A.d.V., che a sua volta li ‘gira’ definitivamente all’acquirente. Vedremo in seguito quanto delicata sia, in questo contesto, la posizione di ogni A.d.V.
A livello contrattuale, le Condizioni Generali di Contratto predisposte da Alpitour, nel periodo considerato dall’Autorità (settembre 2007 – maggio 2009), prevedono effettivamente (Art.6) la possibilità di revisione unilaterale del prezzo, unitamente alle relative modalità di calcolo, ma con una serie di limiti.
Per prima cosa, Alpitour ha modificato, nell’arco di tale periodo, il contenuto di tale articolo, non avendo, nella versione ‘Estate 2007’ rispetto a quelle successive, indicato tra i parametri considerati la variazione del tasso di cambio €/USD (dollaro), oltre ad indicare un sito diverso per la verifica del c.d. ‘indice Platts’ (corrispondente al ‘costo medio giornaliero del jet aviation fuel rilevato e pubblicato on line a pagamento dall’omonima società internazionale privata e indipendente’).
Secondo elemento da sottolineare è poi che Alpitour, ancora nelle C.G.C. e sempre all’Art.6, ha inserito come ulteriore elemento di valutazione la differenza tra il valore ‘Platts’ inserito in contratto e quello medio del secondo mese precedente la partenza (verificabile tramite il sito Internet indicato).
In merito a tale secondo elemento, l’Autorità sottolinea subito come Alpitour abbia “perseguito una strategia diretta ad indicare un livello Platts molto più basso rispetto a quello esistente al momento della pubblicazione del catalogo [dove sono presenti le C.G.C.]”, circostanza che ha evidenziato in modo univoco la piena consapevolezza da parte del T.O. di “dover chiedere ai clienti, almeno per una determinata destinazione, un certo importo a titolo di adeguamento fuel”. Tale previsione, specifica l’Autorità, rappresenta una vera e propria strategia economica ed uno scopo dichiarato’ da parte del T.O., atteso che emerge proprio da uno dei documenti prodotti da Alpitour nell’istruttoria del procedimento, la verifica che attesta una evidente disponibilità del mercato a pagare più surcharge che non accettare prezzi base aumentati rispetto al passato”. In altre parole, la strategia di mercato della Alpitour è stata quella di limitare al massimo l’ascesa dei prezzi in sede di stipula del contratto, nella sempre maggiore consapevolezza di dover, in un secondo momento, richiedere, nelle immediatezza della partenza e a contratto già siglato e parzialmente pagato, una somma integrativa a formale copertura di costi maggiori sostenuti.
Premesso e comprovato documentalmente, quindi, che “dal settembre 2007 al novembre 2008 Alpitour ha richiesto con cadenza mensile adeguamenti carburanti”, ma premesso altresì che tali richieste di adeguamento conseguono ad analoghe richieste di adeguamento da parte dei vettori aerei, restava allora da verificare se l’aumento richiesto da questi ultimi corrispondesse al valore dell’aumento comunicato da Alpitour. Senza entrare nelle modalità di calcolo di tali aumenti, ciò che qui interessa sapere è come “le modalità di calcolo adottate dal T.O. per quantificare l’adeguamento carburante da richiedere ai clienti non risultano tuttavia coincidenti con quelle adottate in sede contrattuale dai vettori charter”. Più precisamente, sottolinea l’Autorità, “elaborazioni effettuate d’ufficio dei dati forniti da Alpitour e di quelli acquisiti in sede ispettiva mostrano chiaramente che per tutte le destinazioni di corto / medio raggio (che rappresentano i volumi principali realizzati dal T.O. in particolare nelle stagioni estive) l’importo per l’adeguamento fuel richiesto alle AdV è notevolmente superiore (fino al 50%) rispetto a quello richiesto dal vettore aereo (la stessa anomalia non si registra con i voli relativi alle destinazioni a lungo raggio)”. Da due tabelle elaborate dall’Autorità e richiamate nel proprio provvedimento, viene evidenziato come tra il giugno e l’agosto 2008 vengono richiesti, per tratte di breve – medio raggio, aumenti che oscillano tra i 15,44 ed i 31,36 euro, ovvero “un importante divario tra l’importo richiesto a titolo di adeguamento jet fuel dal vettore al T.O. e quello richiesto dal T.O. al cliente”.
Peraltro, come si anticipava, dal provvedimento dell’Autorità emerge altresì la posizione di estrema difficoltà nella quale si son trovate, nel caso di specie, le Agenzie di Viaggio, alle quali il Codice del Consumo (art.90) riserva l’obbligo di giustificare documentalmente le richieste di adeguamento del prezzo del pacchetto turistico nei confronti dei consumatori.
Dall’istruttoria è difatti emerso che “nessun tipo di documentazione o informativa [è] mai stata fornita da Alpitour alla propria rete distributiva” e che le A.d.V. “manifestano da tempo un forte disagio a confrontarsi con le richieste di chiarimenti da parte dei consumatori circa la congruità degli importi del fuel surcharge richiesti dal T.O. a fronte della mancanza di qualsiasi documentazione in proposito trasmessa loro”, senza peraltro dimenticare che spesso, soprattutto nei tempi più recenti, “le comunicazioni di incremento carburante pervengono [alle agenzie] via fax troppo a ridosso del limite consentito (20 giorni ante partenza) dalla legge e dal contratto per avvisare i clienti”.
Durante lo svolgersi del procedimento, infine, Alpitour si è impegnata ad inserire dal 1° giugno 2009 all’interno dei suoi siti (effettivamente presente quantomeno al seguente link: http://www.gruppoalpitour.it/alpitourworld/carburante/), un motore di ricerca che, a mezzo di un logaritmo matematico, possa calcolare i livelli di oscillazione minimi e massimi di possibili aumenti del prezzo del viaggio in virtù dell’aumento dei costi del carburante; utilità che permetterebbe così al cliente di avere a disposizione uno “strumento tecnico che, agevolmente ed in qualunque momento e in pochissimo tempo, gli permett[a] di calcolare in assoluta autonomia” tali variabili. A partire dall’inverno 2009-10, poi, Alpitour si è impegnata ad inserire anche nei propri cataloghi cartacei un apposito rinvio alla sezione dedicata al calcolo del possibile fuel surcharge.
Gli esiti finali dell’istruttoria dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sono particolarmente penalizzanti nei confronti di Alpitour e sottolineano a più riprese l’“assoluta inadeguatezza” del T.O. sia in ordine all’“informativa fornita da Alpitour alla clientela in ordine alle modalità di calcolo delle periodiche richieste di fuel surcharge”, che alla “sostanziale assenza di adeguata documentazione in merito ai costi sottesi a tali richieste”.
Tali elementi hanno portato pertanto a concludere che tali condotte, per tutto il periodo considerato in istruttoria (settembre 2007 – maggio 2009), hanno “permesso al T.O. […] di utilizzare in modo arbitrario dello ius variandi eccezionalmente riconosciutogli dall’art.90 Codice del Consumo, chiedendo alla propria clientela importi a titolo di adeguamento carburante non solo non verificabili dalla clientela, ma determinati secondo modalità che hanno permesso di richiedere adeguamenti notevolmente superiori a quanto legittimo e spalmati sulle varie destinazioni anche secondo criteri di mera opportunità commerciale”, utilizzando all’interno dei cataloghi ‘locuzioni non verificabili e criptiche’, nonché dal ‘contenuto gravemente ingannevole ed omissivo’. Ingannevole ai sensi dell’art.21, lett.d) C.d.C., in quanto la descrizione delle modalità di calcolo del possibile rincaro è fornita in modo ‘generico ed oscuro; gravemente omissivo ai sensi dell’art.22 C.d.C., in quanto “non indica l’insieme delle variabili che il professionista prenderà realmente in considerazione ai fini di quantificare l’importo dell’adeguamento fuel”.
L’Autorità ha condannato Alpitour anche ai sensi degli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo, ovvero per pratica commerciale aggressiva e ricorso ad indebito condizionamento, atteso che il T.O. ha gestito il “fuel surcharge come una variabile della politica di prezzo strutturata in base alla maggiore o minore redditività stagionale” ed ha utilizzato, all’interno di “un rapporto già fortemente squilibrato in favore del T.O.”, l’“impossibilità di controparte di recedere [dal contratto] se la variazione non eccede il 10% dell’importo originariamente stabilito”. Il consumatore, in questa maniera, a ridosso della partenza in vacanza (dato che le richieste arrivavano al limite estremo dei 20 giorni previsti dal C.d.C., ulteriore elemento definito dall’AGCM di ‘forte criticità…), “si trova in una posizione di estrema debolezza circa l’esercizio e il controllo dei propri diritti, proprio per le difficoltà di organizzare una vacanza alternativa”. “L’impossibilità, artatamente creata dal professionista, di comprendere esattamente la giustificazione della maggiorazione di prezzo richiesta appare, pertanto, idonea ad esercitare una coercizione sul consumatore, minandone completamente la possibilità di determinarsi in modo consapevole in ordine ad una decisione economica – vale a dire il pagamento ‘informato’ del fuel surcharge in modo da poter, eventualmente, contestarne la legittimità nell’an e/o nel quantum – rispetto a cui è privato di qualsiasi strumento di reazione”.
Infine, Alpitour viene sanzionata anche per violazione dell’Art.20 C.d.C. e per pratica commerciale ‘scorretta, atteso che, da ‘principale operatore del settore, non ha rispettato quel “normale grado di competenza e attenzione che ragionevolmente ci si può attendere, avuto riguardo alla qualità del professionista e alle caratteristiche dell’attività svolta, con riferimento alle modalità con cui ha esercitato il diritto unilaterale di variare il prezzo dei propri pacchetti turistici”, nel cui esercizio ha dimostrato proprio “quell’arbitrio che il legislatore aveva inteso eliminare” in una disciplina già “del tutto eccezionale rispetto al principio per cui il prezzo di un pacchetto turistico ‘tutto compreso’ non è modificabile”.
In virtù della ‘gravità della violazione’, dell’‘importanza del professionista’ e della ‘dimensione economica’ dell’operazione, l’Autorità ha condannato Alpitour al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di € 400.000,00, ridotta ad € 300.000,00 in virtù dell’attività di ‘ravvedimento operoso’ medio-tempore messa in atto sul sito e, nel prossimo futuro, sui cataloghi e nelle Condizioni Generali di Contratto del T.O.
Se da un lato allora si è certamente contenti per la pronuncia anche coraggiosa nei confronti di un vero e proprio ‘colosso’ del settore del turismo (ricavi ultimo bilancio: € 3 milioni), dall’altro non ci si può esimere dal provare preoccupazione per gli aspetti davvero ‘oscuri’ che la stessa ha avuto il merito di rivelare e dell’ampio e studiato ‘raggiro’ messo in atto da molto tempo dal maggior Tour Operator italiano nei confronti dei consumatori italiani. Soprattutto se, a dar credito alle dichiarazioni dello stesso, la maggior parte degli altri competitors del settore si sono ‘ispirati’ proprio alle sue clausole contrattuali per la loro ‘chiarezza’ e ‘trasparenza’…
Probabilmente, le battaglie contro i T.O. non sono ancora terminate...
(postato originariamente il 03.08.2009)

Trasferimenti

Da oggi il Blog di Cittadinoeutente viene trasferito a questo nuovo indirizzo, sperando che, questa volta, possa mantenerlo.
Ripubblichiamo anche i precedenti interventi.
A rileggerci presto.