venerdì 28 ottobre 2011

Italia-Programmi.net: aggiornamenti dall'Autorità Antitrust - il comunicato del 26 ottobre u.s.


L’Antitrust sta ricevendo quotidianamente centinaia di denunce inviate da consumatori che ricevono solleciti di pagamento da parte della società Estesa Limited per un presunto abbonamento annuale a software scaricabili dal sito www.italia-programmi.net.
In proposito, l’Autorità intende fare presente che, con delibera adottata il 25 agosto scorso, in via cautelare, ha intimato alla società Estesa Limited di cessare l’invio dei solleciti di pagamento in quanto, in base alle prime valutazioni, essi appaiono riconducibili ad una condotta commerciale che viola il Codice del Consumo.
Si ricorda, pertanto, che tali solleciti sono inviati da Estesa Limited in palese violazione della delibera adottata il 25 agosto 2011.
L’Antitrust, che sta concludendo l’istruttoria avviata per pratica commerciale scorretta nei confronti di Estesa Limited, ha anche deciso di inviare alla Polizia Postale, alla Procura della Repubblica e alla Guardia di Finanza una segnalazione sul fenomeno in atto.

mercoledì 26 ottobre 2011

Ma che succede sul sito 'ITALIA-PROGRAMMI.NET'?

A sèguito delle numerose segnalazioni pervenute dagli utenti, l'associazione a difesa dei consumatori ADUC (aduc.it) la scorsa estate ha presentato una denuncia allAntitrust contro la societa’ Estesa Limited, che gestisce il sito di italiaprogrammi.net. A seguito di tale iniziativa l'Antitrust, il 29 agosto scorso, ha intimato alla società di cessare la sua condotta commerciale scorretta, ordinandole di:
- non pubblicizzare i servizi offerti come di “fruizione gratuita di software scaricabili dal sito www.italiaprogrammi.net”;
- evidenziare sul sito stesso che, al contrario, si tratta di un servizio a pagamento;
- abbandonare ogni attività di richiesta di pagamento nei confronti di quei consumatori che hanno reso noto alla società di non aver mai inteso sottoscrivere alcun contratto, attesa la natura occulta e scorretta dell'onerosità del servizio.
Italiaprogrammi.net ha quindi modificato la pagina di registrazione del sito, evidenziando nella pagina di registrazione al servizio “Crea il tuo account a soli 8 euro al mese”, come è stato accertato dall'Autorità a tutela del Mercato a metà settembre u.s.
L'ADUC ha pero' scoperto, grazie ad ulteriori segnalazioni degli utenti, che la modifica e' solo parziale, operando solo in orario lavorativo, mentre negli altri orari (quando è meno probabile fare controlli?) 'torna' la vecchia dicitura, che non specifica il costo del servizio ('Crea il tuo account').
L'ADUC dunque, in data 15 ottobre, ha nuovamente
segnalato l'accaduto all'Antitrust, tanto che l'Autorita' e' intervenuta nuovamente il 13 Ottobre scorso, intimando a questa societa' di ottemperare a quanto da essa gia' comunicato a fine agosto.

Per cui, FARE ATTENZIONE:
-                    il sito Italiaprogrammi.net NON E' un sito di download GRATUITO, ma prevede il pagamento di un abbonamento mensile di 8 euro;
-                    se vi siete già iscritti al sito, senza sapere che fosse a pagamento, inviate una lettera raccomandata a/r alla

Estesa Limited
Global Gateway 2478 Rue De La Perle
Providence, Mahe (Republic of Seychelles)

comunicando la nullità, l'annullamento o comunque la rescissione dal contratto data la nullità di clausole essenziali, e comunque sottoscritto in virtù di una condotta commerciale scorretta;
- se avete ricevuto o riceverete solleciti di pagamento da parte di detta Società con lettera raccomandata a/r, rispondete nella stessa maniera di cui al punto precedente. Qualora le comunicazioni invece arrivassero con lettera semplice, potranno essere altrettanto semplicemente ignorate;
- la stessa procedura dei punti precedenti dovrete seguire, qualora vi foste iscritti anche presso altri siti (tipo mydownload-club.info);
- in ogni caso, vi invitiamo ad informare di tali ulteriori richieste l'autorità Antitrust via posta, via internet (agcm.it) o anche a mezzo numero verde 800 166 661.
- potrete anche, in alternativa, informare l'Associazione Cittadinoeutente.it per le denunce del caso.

lunedì 24 ottobre 2011

Corecom Emilia Romagna c/ Vodafone: i limiti della Carta dei Servizi


Nello scorso settembre, il CORECOM Emilia-Romagna ha emesso un’interessante delibera con la quale ha condannato la VODAFONE ad un cospicuo risarcimento per violazione degli obblighi di tempistica attivazione di alcuni servizi.
La delibera appare interessante soprattutto per come affronta le tematiche inerenti le previsioni di risarcimento inserite nelle Carte dei Servizi. Si riprendono di sèguito i punti salienti della decisione:
In forza di contratto del 23 ottobre 2008, avente ad oggetto l’offerta “Vodafone InOffice Internet e Telefono Flat”, l’operatore avrebbe dovuto attivare il servizio Vodafone Station entro 20 giorni solari dal contratto, secondo quanto previsto dalla parte seconda, punto 3, della Carta del cliente di Vodafone per i servizi di telefonia fissa e di accesso a internet da postazione fissa. L’inadempimento, contestato dal gestore, non risulta provato. Al riguardo, si ritiene di dovere applicare e di doversi uniformare al principio sancito dalla Cassazione, secondo cui “In tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore deve soltanto provare la fonte, negoziale o legale, del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza del’’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo della altrui pretesa, costituito dall'avvenuto esatto adempimento” (Cass. civ. Sez. Unite Sent., 06-04-2006, n. 7996). 
Pertanto, termine ultimo entro il quale Vodafone avrebbe dovuto attivare il servizio Vodafone Station si assume il 12 novembre 2008. A partire dal 13 novembre 2008 e sino alla disdetta, inviata dall’istante in data 16 febbraio 2009 e ricevuta dall’operatore in data 20 febbraio 2009, si ritiene di riconoscere in favore dell’istante la corresponsione di un indennizzo per ogni giorno di ritardo. A fronte di sessantasette giorni di ritardo, calcolati a far data dal 13 novembre 2008 e sino al 20 febbraio 2009, con esclusione dei sabati e delle domeniche, applicando l’indicatore 3 (“Tempo massimo per l’attivazione del servizio”) della parte terza della Carta del cliente di Vodafone per i servizi di telefonia fissa e di accesso a internet da postazione fissa, che prevede 10,00 euro per ogni giorno di ritardo per ogni ordine ricevuto (fino ad un massimo di 50,00 euro), si giunge al riconoscimento di un indennizzo pari ad euro 670,00. Tale cifra si ritiene proporzionata rispetto al disagio subito dall’utente, tenuto anche conto del grado di attivazione di quest’ultimo in ordine alla tempestiva segnalazione del disservizio al servizio clienti. Sulla quantificazione dell’indennizzo occorre infatti rinviare alla costante prassi di questo Ufficio (cfr. ex multis dell. 3/2010 e 12/2010) e della stessa AGCOM, che si intende qui richiamata, in materia di applicazione dei limiti massimi di liquidazione previsti dalle Carte di servizi. L’applicazione di tali limiti massimi infatti non è possibile laddove la somma così liquidata non sia proporzionale al pregiudizio arrecato (art. 11, c. 2, del. AGCOM 179/03/CSP), attesa la necessità che l’indennizzo sia adeguato, ossia corrispondente rispetto al pregiudizio subito. Ad ogni modo, dall’inadempimento di Vodafone relativo alla mancata attivazione del servizio Vodafone Station discende l’illegittimità degli addebiti di costi per “Attivazioni/Canoni Connettività” relativi al suddetto servizio non attivato. Si ritiene, pertanto, di accogliere la richiesta di rimborso in favore dell’istante di euro 496,48, così come dallo stesso formulata. A ciò deve aggiungersi il riconoscimento in favore dell’istante di un indennizzo per il ritardo nel riaccredito di somme addebitate e pagate ingiustamente, secondo quanto previsto dalla parte terza, punto I, indicatore 2, della Carta del cliente di Vodafone per i servizi di telefonia fissa e di accesso a internet da postazione fissa, che prevede la corresponsione di euro 5,00 per ogni giorno di ritardo, fino ad un massimo di 50 euro. In ordine all’arco temporale individuato dall’istante e ricompreso tra la data di presentazione dell’istanza di conciliazione (4 maggio 2009) e la data della proposta transattiva avente ad oggetto il riaccredito in questione (30 novembre 2009), per un totale di centocinquanta giorni, esclusi sabati e domeniche, applicando euro 5,00 per ogni giorno, si individua un indennizzo pari ad euro 750,00. Tale cifra si ritiene proporzionale al disagio subito dall’istante, secondo le argomentazioni che precedono in materia di quantificazione degli indennizzi.
[…]
c) La domanda deve essere accolta. Secondo quanto affermato dall’istante, in data 24 marzo 2009 Vodafone sospendeva la linea telefonica mobile per presunta morosità a causa del pagamento parziale della fattura n. 8007103161 del 30 gennaio 2009 dalla quale [il Sig. XXX] aveva decurtato i costi di attivazione e canoni relativi al servizio Vodafone Station pari ad euro 123,74. A seguito della sospensione ed al fine di vedersi riattivata l’utenza mobile, l’istante, alla fine di aprile 2009, provvedeva a pagare la somma non dovuta decurtata dalla fattura di cui sopra. Solo successivamente al suddetto pagamento la linea mobile veniva riattivata. Alla luce di quanto affermato dall’istante e non specificamente comprovato in senso contrario da controparte, si ritiene di riconoscere in favore [del Sig. XXX] la corresponsione di un indennizzo per illegittima sospensione in quanto non preceduta da adeguato e congruo preavviso e a nulla rilevando la disdetta ricevuta da Vodafone in data 20 febbraio 2010, risultando riferita limitatamente al servizio Vodafone Station mai attivato dal gestore. Dal 24 marzo 2010 al 30 aprile 2010, a fronte di ventisette giorni di indebita sospensione, in assenza della specifica previsione di un indennizzo per illegittima sospensione ad opera della Carta del cliente di Vodafone per i servizi mobili, si ritiene di procedere in via analogica applicando quanto previsto dalla stessa carta per l’ipotesi di mancata attivazione del servizio. Pertanto, secondo quanto previsto per i servizi mobili dalla parte terza, punto II, indicatore 9, si applica un indennizzo di euro 10,33 per ogni giorno di ritardo, fino ad un massimo di euro 51,65. Considerato che vengono in rilievo ventisette giorni di illegittima sospensione, esclusi sabati e domeniche, si riconosce a favore dell’istante un indennizzo pari ad euro 278,91. Tale cifra si ritiene proporzionale al disagio subito dall’istante e si rinvia a quanto detto sopra in ordine al superamento dei limiti massimi in materia di quantificazione degli indennizzi.”

lunedì 17 ottobre 2011

IVA SU TARSU/TIA n.2: Il Diavolo nella Procedura...

Note su alcuni aspetti procedurali dopo il D. L. n.78/2010
L’intervento legislativo di cui all’art. 14, comma 33, del D.L. n.78/2010, convertito con L. n.122/2010, che ha inteso introdurre una lettura si direbbe ‘imperativa’, più che autentica, della natura della ‘tariffa integrata ambientale’ (T.I.A.) prevista dall’art.238 del D.Lgs. n. 152/2006 (cfr. articolo precedente), non ha mancato di incidere anche sugli aspetti più strettamente processuali della materia, specificando come “le controversie relative alla predetta tariffa, sorte successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria”.
Da un certo punto di vista, la previsione sarebbe diretta e naturale conseguenza della interpretazione data dal legislatore: atteso che, a seconda della natura della ‘tariffa’, per pacifica interpretazione giurisprudenziale, la competenza giurisdizionale sarebbe del Giudice Ordinario (se avesse natura di ‘corrispettivo per un servizio’) ovvero del Giudice Tributario (se avesse natura di ‘tributo’), la previsione della competenza del Giudice Ordinario appare del tutto consequenziale, se non addirittura pleonastica.
Tuttavia, nella sua formulazione, tale specificazione pone già un primo ordine di problemi, ovvero: a quale ‘tariffa’ si riferisce la norma? Si direbbe, stando alla lettera dell’articolo, solo a quella prevista dal D. Lgs. 152/2006, ma se così effettivamente fosse, ciò potrebbe indurre a ritenere che:
a)      per formulare le proprie richieste, si dovrebbe essere certi della tipologia di ‘tariffa’ applicata dall’Ente gestore del servizio, atteso che non tutti i gestori hanno nel tempo adottato la ‘tariffa’ di cui alla normativa del 2006, ma alcuni hanno continuato a riferirsi alla normativa precedente;
b)      la promozione di un procedimento per l’ottenimento di un rimborso dell’IVA, dovrebbe incardinarsi innanzi al Giudice Ordinario per le richieste sulle voci successive al 2006 (in base alla tariffa di cui al D. Lgs. del 2006: cfr. lettera ‘a’), mentre sarebbe da incardinare innanzi al Giudice Tributario per quelle precedenti a tale data…
Ma così semplice, a ben vedere, la questione non è, atteso che, come sottolineato nella Circolare n.3 del 2010 del Ministero delle Finanze (cfr. articolo precedente), “si applicano anche alla TIA1 le nuove disposizioni recate dall’art. 14, comma 33, del D. L. n.78/2010”… Pertanto, sulla scorta di tale (ulteriore) ‘interpretazione’, secondo il parere del Ministero delle Finanze le domande di rimborso per i contributi IVA successive al maggio 2010 dovrebbero presentarsi innanzi al Giudice Ordinario anche per i contributi precedenti il 2007. Con il conseguente rischio che:
-          in caso si adisca solo il Giudice Ordinario (per l’IVA pagata prima e dopo il 2007), ci si espone al rischio di una eccezione d’incompetenza del Giudice adito per la parte di IVA precedente il 2007;
-          in caso si interpellino entrambi i Giudici (Tributario per la parte precedente il 2007, Ordinario per la parte successiva), ci si potrà vedere sollevare l’eccezione di incompetenza del primo in favore del secondo, anche per il periodo precedente il 2007…
Ma le incertezze non sono certo finite qui.
Dato che, per i suesposti motivi, non è dato sapere con sufficiente certezza quale sia la Giurisdizione competente, permangono dubbi anche sulle modalità di proposizione del rimborso, soprattutto per la presenza di delicati aspetti inerenti la decadenza dal diritto stesso.
La scelta del Giudice e, di conseguenza, del rito da applicare, infatti, al di là di aspetti meramente formali, trova soprattutto in un particolare una differenza sostanziale: quello del termine per la presentazione del ricorso.
Mentre infatti, innanzi al Giudice Ordinario, l’azione è soggetta ai normali termini di prescrizione (che, nel caso di specie, sarebbero di 10 anni, attesa la illegittimità – da cui l’ingiustificato arricchimento – dell’operato dell’Ente gestore), nel caso si adisse il Giudice Tributario l’azione sarebbe soggetta anche al termine di decadenza di cui all’art. 21 del D. Lgs. n.546/1992, corrispondenti a 60 giorni a partire dal dì della risposta di rigetto dell’Ente, ovvero dopo la formazione del silenzio-rigetto (che si formalizza dopo 90 gg. di silenzio dell’Ente dal dì della richiesta-messa in mora). La norma è infatti inerente il procedimento tributario e non dovrebbe, a rigor di logica e di Legge, interessare il processo innanzi al Giudice Ordinario.
Affrontati i precedenti aspetti preliminari, si può quindi entrare in altri aspetti più inerenti il merito del ricorso.
Un primo punto importante è quello relativo alla legittimazione passiva, ovvero il soggetto da convocare in giudizio.
La questione è opportuno che sia affrontata nel dettaglio, atteso che può aversi dubbio se richiedere il rimborso dell’IVA al soggetto che materialmente la richiede al contribuente (l’Ente gestore del servizio dei rifiuti), ovvero l’Organo del Ministero nel cui interesse viene versata (l’Ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate: cfr. da ultima, sent. Corte Cass. n.17601/2010). Sul punto, sarebbe sufficiente convenire in giudizio anche solo l’Ufficio locale, atteso che è quest’ultimo, secondo il Giudice delle Leggi, “l’unico ufficio legittimato a stare in giudizio”. Nel caso di specie, tuttavia, per i motivi che si evidenzieranno meglio dopo, data la facoltà, da parte dell’Ente gestore, di disapplicare le indicazioni applicative derivanti dalle circolari ministeriali, c’è a mio avviso la possibilità/opportunità di convenire in giudizio anche l’Ente gestore, proprio per questo suo onere/facoltà non correttamente esercitato, oltre che come più diretto ‘contraddittore’ del contribuente.
Ma questione di merito è anche quella collegata alla competenza giurisdizionale del Giudice adito.
A riguardo, potrebbe infatti porsi la seguente alternativa: adire comunque il Giudice Ordinario, giusta la perentoria indicazione normativa del recente D.L. del 2010, per rivendicare in tale sede la natura ‘tributaria’ della Tariffa, ovvero adire – esponendosi certamente ad un’eccezione preliminare di incompetenza, cfr. punto precedente – il Giudice Tributario, proprio in virtù della natura pubblicistica attribuita alla stessa?
Contrariamente a quello che potrebbe sembrare più semplice e, comunque, in ogni caso apparentemente più ‘prudente’, quantomeno per non essere soggetti all’immediata eccezione di incompetenza funzionale del Giudice da parte dei soggetti convenuti, i comuni principii processualistici dovrebbero imporre di adire il Giudice che si ritiene competente in virtù delle istanze promosse innanzi a Questi, e pertanto, nel nostro caso, quello Tributario. Ragionando a contrario, infatti, sarebbe ben illogico ribadire ed eccepire la natura ‘tributaria’ della Tariffa innanzi ad un Giudice (quello Ordinario), che si rivelerebbe manifestamente incompetente se accogliesse il presupposto stesso dell’istanza di rimborso… Sarebbe un paradosso logico e giuridico che, ritengo, porterebbe inevitabilmente al rigetto della domanda per manifesta incompetenza funzionale del Giudice adito.
Proseguendo quindi nell’analisi dei contenuti proponibili nell’istanza di rimborso, al di là di quelli strettamente di merito già affrontati nell’articolo precedente, da un punto di vista procedurale possono sollevarsi le seguenti, ulteriori istanze.
La prima, più semplice, è quella relativa all’efficacia giuridica da dare alla Circolare del Ministero delle Finanze sopra ricordata, che avrebbe, secondo l’Ente emanante, un’ulteriore ‘efficacia interpretativa’ del già citato disposto normativo (art. 14, co.33, D.L. n. 78/2010), quantomeno nei confronti dei contribuenti che si vedono negare le proprie richieste di rimborso proprio in base al richiamo a tale documento.
Contrariamente a quanto gli stessi Enti spesso rappresentino all’esterno nei rapporti con i loro contraddittori, dobbiamo ricordare che, per interpretazione giurisprudenziale pacifica (tra le ultime, cfr. V° sez. Cons. Stato, sentenza n. 7521 del 15 ottobre 2010), “le circolari amministrative sono atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati, che non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale” e che, pertanto, non solo “tali atti di indirizzo interpretativo non sono vincolanti per i soggetti estranei all'amministrazione”, ma, aspetto per noi ulteriormente interessante, “per gli organi destinatari esse sono vincolanti solo se legittime, potendo essere disapplicate qualora siano contra legem (C. Stato, sez. IV, 27-11-2000, n. 6299)” (sent. Cons. Stato, cit.).
In virtù di tale specificazione, pertanto, non solo l’interpretazione che abbiamo definito ‘ulteriormente estensiva’ da parte del Ministero delle Finanze non potrà avere alcun peso nella valutazioni giuridiche di qualsiasi Giudice adito, sia esso Ordinario, ovvero Tributario; ma in più, ci dà l’ulteriore possibilità di poter chiedere, anzi pretendere la disapplicazione di tale interpretazione di fatto gerarchicamente proposta agli Enti gestori, lì dove si possa dimostrare la conflittualità di tale orientamento interpretativo con una norma di Legge.
Ma qual è, nel nostro caso, questa norma?
La risposta a questa domanda aprirà un ultimo, e più complesso argomento di natura procedimentale.
Se appare abbastanza semplice, sul punto, ribadire una sorta di ‘principio generale’ in base al quale, come correttamente specificato anche dalla Corte di Cassazione, la natura di una ‘tariffa’ non può essere determinata dal suo nomen iuris, bensì dalle caratteristiche della stessa (cfr. articolo precedente), tuttavia individuare una ‘norma imperativa di Legge’ da opporre sia alla norma di ‘interpretazione imperativa’ del 2010 che alla Circolare ministeriale, può apparire, nel caso di specie, problematico.
Ma tale difficoltà, la si ritrova solo su norme di livello nazionale.
Se al contrario, invece, rivolgessimo la nostra attenzione verso fonti normative di natura comunitaria, il risultato sarebbe ben differente, atteso che troveremmo la Direttiva n. 77/388/CEE del 17 maggio 1977 (recepita in Italia dai D.P.R. nn. 24 e 94 del 1979), interamente dedicata alla disciplina dell’imposta sul valore aggiunto (I.V.A.), e successive integrazioni e modificazioni, che, all’art.4, n.5, specifica come tutti gli “organismi di diritto pubblico non sono considerati soggetti passivi per le attività o operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni”, salvo che (comma II), in ciò facendo, non si creino “distorsioni di concorrenza di una certa importanza”, palesemente insussistenti nel nostro caso atteso che “il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa” (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 238/2009, ampiamente citata nell’articolo precedente).
La presenza di tale normativa, di livello gerarchico addirittura superiore rispetto a quelle nazionali e, ça va sans dire, pienamente applicabile a livello interno, ha così diverse conseguenze sulle possibili richieste da formulare all’Organo Giudicante (O. G.).
La prima, è rappresentata dalla possibilità di chiedere direttamente all’O.G. la disapplicazione della norma interna (art.14, co.33, D.L. 78/2010) per manifesto contrasto con quella comunitaria, secondo i più comuni ed accettati principi derivanti dalla gerarchia delle fonti.
La seconda, in subordine, è quella di chiedere la sospensione della causa e contemporaneamente la rimessione della questione alla Corte Costituzionale per sollevare la questione di legittimità costituzionale della citata norma del D.L. 2010 in quanto contrastante con un vincolo derivante dall’ordinamento comunitario, giusta applicazione dell’art. 117, co.I, della Carta costituzionale (cfr. Corte Cost., sent. n. 406/2005).
La terza, infine, sempre in caso di rigetto della prima istanza, è quella di richiedere all’O.G. la rimessione (N.B.: comunque facoltativa) della causa innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per farla esprimere in ordine ad un giudizio di compatibilità tra la normativa comunitaria e quella interna.
E’ opportuno ricordare, sul punto, che tale obiettivo potrà essere ottenuto attraverso lo strumento del c.d. ‘rinvio pregiudiziale’ previsto dall’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (ex art. 234 Trattato istitutivo della C.E.), e del suo uso (indiretto) per la pronuncia di compatibilità tra una norma comunitaria ed il contenuto di una norma di diritto interno.
Avv. Antonio M. Polito

venerdì 14 ottobre 2011

Corte di Giustizia UE: Va risarcito anche il danno morale al passeggero di volo cancellato


Danno morale e materiale al passeggero che resta a terra per il volo cancellato, un indennizzo che spetta anche a chi, pur imbarcato, è costretto a tornare alla base per un problema dell’aereo.
L’ampliamento della tutela -  La Corte di giustizia con la sentenza C-83/10 amplia la tutela nei confronti dei viaggiatori e fornisce un’interpretazione estensiva del concetto di “cancellazione”, considerando annullati anche i voli che partono ma non raggiungono la destinazione originaria. Ma non solo, per i giudici di Lussemburgo, il diritto al risarcimento del danno morale e materiale scatta anche nel caso il viaggiatore sia “dirottato” su un altro volo in un tempo diverso rispetto a quello inizialmente programmato.
Le norme comuni - Per quantificare quando e quanto il pregiudizio vada risarcito il punto di riferimento è il Regolamento 261 del 2004 che stabilisce le misure comuni a tutti gli Stati europei che le compagnie sono tenute a rispettare in caso di negato imbarco, cancellazione o ritardo prolungato. Nello stesso Regolamento è  affermato anche  il diritto del passeggero “in panne” a un risarcimento supplementare detraibile da quello fissato dalla norma. A quantificare la somma è la Convenzione di Montreal che limita a circa 4.750 euro la responsabilità del vettore.
Il ruolo del giudice nazionale - Una possibilità di risarcimento che  Corte di giustizia allarga anche al danno morale, lasciando al giudice nazionale il compito di valutare, nel rispetto della Convenzione, la possibilità di concedere il risarcimento supplementare in caso di inadempimento del vettore.
Ulteriore onere per le compagnie che vengono meno al loro dovere di sostenere il passeggero del passeggero lasciato a terra o trasferito su un altro volo - dall’obbligo di rimborso del biglietto alle spese di alloggio e di trasferimento – è quello di risarcire per la “svista” i passeggeri. Indennizzo previsto dal Regolamento e che non può dunque essere considerato “supplementare”.
(Da Guida al Diritto, Sole 24 Ore). 

mercoledì 12 ottobre 2011

Autorità Antitrust: estensione di indagine nei confronti di Trenitalia per concorrenza sleale nei confronti di Arenaways - il provvedimento.

L’AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO NELLA SUA ADUNANZA del 22 settembre 2011;
SENTITO il relatore Professore Carla Bedogni Rabitti; VISTA la legge 10 ottobre 1990, n. 287; VISTI gli articoli 4.3, 102 e 106 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (di seguito,
TFUE);
VISTO il Regolamento n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002; VISTO l’articolo 54 della legge 6 febbraio 1996, n. 52;
VISTA la Comunicazione della Commissione sulla cooperazione nell’ambito della rete delle autorità garanti della concorrenza, del 27 aprile 2004;
VISTO il D.P.R. 30 aprile 1998, n. 217;
VISTO il proprio provvedimento del 15 dicembre 2010, con il quale è stata avviata un’istruttoria, ai sensi dell’articolo 14 della legge n. 287/90, per presunta violazione dell’articolo 102 del TFUE, nei confronti delle società Ferrovie dello Stato S.p.A. e Rete Ferroviaria Italiana S.p.A., con riferimento ad una strategia volta ad ostacolare se non escludere, con pregiudizio del consumatore finale, l’accesso all’infrastruttura ferroviaria nazionale e conseguentemente l’ingresso nel mercato italiano del trasporto passeggeri, da parte del nuovo entrante Arenaways, favorendo così la controllata di FS, Trenitalia; strategia costituita principalmente dall’adozione da parte di RFI di comportamenti ingiustificatamente dilatori; 
VISTI gli atti del procedimento;
VISTI gli elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria e, in particolare, quelli relativi agli accertamenti ispettivi effettuati, ai sensi dell’articolo 14, comma 2, della legge n. 287/90, in data 21 dicembre 2010 presso le sedi delle società Ferrovie dello Stato S.p.A., Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. e Trenitalia S.p.A.;
CONSIDERATO che Trenitalia S.p.A. è l’operatore incumbent nella fornitura di servizi di trasporto ferroviario, incluso il mercato nazionale dei servizi di trasporto ferroviario passeggeri, nel quale Trenitalia S.p.A. detiene una posizione dominante;
CONSIDERATO che dalla suddetta documentazione risulta che Trenitalia S.p.A. sembra avere posto in essere una serie di comportamenti che appaiono finalizzati ad ostacolare se non impedire l’ingresso del nuovo operatore Arenaways S.p.A. nel mercato nazionale dei servizi di trasporto ferroviario passeggeri;
CONSIDERATO in particolare che Trenitalia S.p.A. appare avere fornito all’URSF, nell’ambito del procedimento avviato ai sensi dell’art. 59 della legge n. 99/2009 e concluso in data 9 novembre 2010, una rappresentazione non corretta dell’impatto del prospettato ingresso di Arenaways sui contratti di servizio pubblico stipulati da Trenitalia stessa, volta ad enfatizzare il rischio che la presenza di Arenaways pregiudicasse l’equilibrio economico della gestione del servizio pubblico, compromettendone la sostenibilità
CONSIDERATO inoltre che Trenitalia S.p.A. sembra avere adottato un comportamento ostruzionistico nell’ambito del procedimento avviato dall’URSF di riesame della decisione del novembre 2010, comportamento consistente, tra l’altro, nel ritardare l’invio all’URSF delle informazioni richieste, necessarie a svolgere il procedimento di riesame, che avrebbe potuto consentire ad Arenaways di effettuare almeno alcune fermate intermedie lungo il percorso che nell’originaria richiesta collegava Milano a Torino;
CONSIDERATO poi che la strategia di Trenitalia S.p.A., in base agli atti del fascicolo, appare avere comportato un utilizzo strumentale dei propri treni non sussidiati, in particolare aumentando l’offerta di corse sulle tratte interessate dalla richiesta di Arenaways, al fine di ostacolare l’ingresso del nuovo entrante
RITENUTO, pertanto, necessario estendere soggettivamente l’istruttoria in corso anche nei confronti della società Trenitalia S.p.A.;
RITENUTO altresì necessario, al fine di svolgere gli opportuni approfondimenti istruttori e di garantire i diritti di difesa della società Trenitalia S.p.A., prorogare il termine di conclusione del procedimento;
DELIBERA
a) di estendere il procedimento avviato in data 15 dicembre 2010 nei confronti della società Trenitalia S.p.A.;
b) la fissazione del termine di giorni trenta, decorrente dalla data di notificazione del presente provvedimento, per l’esercizio, da parte dei rappresentanti legali dei predetti soggetti, ovvero di persone da essi delegate, del diritto di essere sentiti, precisando che la richiesta di audizione dovrà pervenire alla Direzione “Agroalimentare e Trasporti” della Direzione Generale per la Concorrenza di questa Autorità almeno sette giorni prima della scadenza del termine sopra indicato;
c) di prorogare all’8 marzo 2012 il termine per la conclusione del procedimento;
d) che il responsabile del procedimento è la dottoressa Stefania Di Girolamo;
e) che gli atti del procedimento possono essere presi in visione dalle società nei cui confronti si svolge l’istruttoria, ovvero da persone da esse delegate, presso la Direzione “Agroalimentare e Trasporti” della Direzione Generale per la Concorrenza di questa Autorità. 
Il presente provvedimento verrà notificato ai soggetti interessati e pubblicato nel Bollettino dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.    

IL SEGRETARIO GENERALE Luigi Fiorentino
IL PRESIDENTE Antonio Catricalà 

lunedì 10 ottobre 2011

La poco conosciuta ma invero incredibile storia della natura giuridica della TARSU/TIA, e sue poco nobili conseguenze (sull’IVA)

Pochi proverbi si adattano così bene al mondo giuridico, come quello per cui ‘il diavolo si nasconde nei dettagli’… .
Chi studia e commenta il diritto, infatti, sa bene che il significato ed il senso di qualsiasi testo giuridico (sia esso di natura legislativa, giurisprudenziale o privatistica-contrattuale), può essere determinato da uno o più ‘dettagli’ del testo, come possono esserlo commi e sottocommi, brevi incisi, sin anche singoli aggettivi…
La storia della natura giuridica della ‘Tariffa’ per i rifiuti solidi urbani (TARSU/TIA) è, da questo punto di vista, esemplare, anche per il modo in cui evidenzia quanto lo strumento legislativo possa essere (ab)usato per forzare in maniera plateale l’interpretazione del già chiaro dato normativo.
Ma andiamo con ordine ricordando i punti essenziali della questione, in ciò ricalcando quanto evidenziato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 238 del 24 luglio 2009 che, come vedremo, sarà un nostro continuo e fondamentale elemento di riferimento.
Con il R.D. n. 1175 del 14 settembre 1931 (‘Testo unico per la finanza locale’), veniva previsto in favore del Comune un «corrispettivo per il servizio di ritiro e trasporto delle immondizie domestiche» la cui evidente dizione ‘sinallagmatica’ (di ‘servizio’, appunto) veniva già “radicalmente mutata”, come si esprime la Corte, “dall'art. 10 della legge 20 marzo 1941, n. 366 (Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani), il quale ha attribuito ai Comuni la facoltà di istituire una «tassa» per la raccolta ed il trasporto delle immondizie e dei rifiuti ordinari (interni ed esterni), ponendo tale prelievo a carico dei soggetti occupanti i fabbricati posti nelle zone in cui si svolge (in regime di privativa comunale) il servizio di raccolta”.
Dopo circa cinquant’anni, l' art. 21 del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 sostituiva quindi l'intera sezione II (artt. da 268 a 278) del capo XVIII (Proventi di servizi municipalizzati) del titolo III (Entrate comunali e provinciali) del suddetto R.D. n. 1175 del 1931. In particolare, specifica sempre la Suprema Corte, “con la nuova formulazione dell' art. 268 del testo unico, il legislatore ha esteso e reso obbligatorie sia l'effettuazione dei vari servizi relativi allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani «interni», sia l'applicazione della «tassa» […] a carico di chiunque occupi o conduca locali, a qualunque uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale. […] In particolare, il legislatore, nel ridisciplinare il suddetto prelievo comunale, ha individuato nel «costo di erogazione del servizio» il limite massimo di gettito, «al netto delle entrate derivanti dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti sotto forma di materiali o energia»; e ciò in coerenza con la denominazione di «tassa» (art. 268, citato). Nella medesima prospettiva della natura pubblicistica del prelievo, l'art. 9 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, […] ha previsto, con effetto dal 1° gennaio 1989, che mediante la «tassa» venissero coperti (in tutto o in parte) anche i costi dei servizi di smaltimento […] non solo dei rifiuti «interni», ma anche di quelli «di qualunque natura e provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o soggette ad uso pubblico». […].  L'art. 8 dello stesso decreto-legge ha ribadito la qualificazione di «tassa» del prelievo, inserendo tale denominazione anche nella rubrica della citata sezione II del regio decreto”.
Sino ai primi anni novanta, pertanto, la natura pubblicistica della ‘Tassa’ per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani è fuori discussione.
Un ulteriore intervento sulla disciplina è però costituito dal decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 il quale “ha stabilito, all'art. 58, che, in relazione all'istituzione ed all'attivazione del servizio relativo allo «smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, svolto in regime di privativa» nelle zone del territorio comunale, i Comuni «debbono istituire una tassa annuale» (usualmente denominata "TARSU"), da applicarsi «in base a tariffa», secondo appositi regolamenti comunali, a copertura (dal cinquanta al cento per cento ovvero, per gli enti locali per i quali sussistono i presupposti dello stato di dissesto, dal settanta al cento per cento) del costo del servizio stesso. […] Quanto ai soggetti passivi, la tassa è dovuta (in solido tra i componenti del nucleo familiare o tra gli utilizzatori in comune degli immobili) da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti - ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde - esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa. […] Il prelievo, dunque, è posto in relazione, da un lato, alla attitudine media ordinaria alla produzione quantitativa e qualitativa dei rifiuti per unità di superficie e per tipo di uso degli immobili e, dall'altro, alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento dei rifiuti da parte dei soggetti passivi. […] La natura pubblicistica e non privatistica del prelievo è ulteriormente evidenziata sia dalla regola secondo cui «L'interruzione temporanea del servizio di raccolta per motivi sindacali o per imprevedibili impedimenti organizzativi non comporta esonero o riduzione del tributo» (art. 59, comma 6, primo periodo); sia dal sopra citato comma 3-bis dell'art. 61 e successive modificazioni, che ha reso rilevante anche il costo dello spazzamento dei rifiuti esterni”.
Nonostante dunque il testo normativo inizi a presentare qualche ambiguità (‘Tassa annuale’ -TARSU- da applicarsi ‘in base a tariffa’…), le caratteristiche del prelievo lasciano, secondo l’autorevole lettura della Suprema Corte, ben pochi dubbi in ordine alla natura pubblicistica dello stesso.
Un terzo intervento legislativo si è poi realizzato con l'entrata in vigore dell'art. 49 del cosiddetto "decreto Ronchi" (D.Lgs. n. 22/1997), il quale “ha previsto l'istituzione, da parte dei Comuni medesimi, di una «tariffa» per la copertura integrale dei costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale. Tale tariffa - usualmente denominata tariffa di igiene ambientale (TIA) - «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all'entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). […] Il metodo normalizzato è stato approvato con il regolamento di cui al d.P.R. 27 aprile 1999, n. 158. È tenuto al pagamento della tariffa «chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale» (comma 3)”.
Quarta ed ultima rilevante modifica legislativa del prelievo di natura tributaria è infine costituita dall'art. 238 del D.Lgs. n. 152 del 3 aprile 2006, il quale “ha soppresso la tariffa di cui all'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, sostituendola con la diversa «tariffa per la gestione dei rifiuti urbani» (come testualmente indicato nella rubrica dell'articolo), che una disposizione successiva (l'art. 5, comma 2-quater, del citato decreto-legge n. 208 del 2008) denomina «tariffa integrata ambientale (TIA)». […] La tariffa integrata è dovuta da chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali, o aree scoperte ad uso privato o pubblico non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, che producano rifiuti urbani (comma 1, primo periodo). Detta tariffa, in particolare, è «commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base di parametri [...] che tengano anche conto di indici reddituali articolati per fasce di utenza e territoriali» (comma 2). […] La medesima tariffa «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti, nonché da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). È espressamente previsto che la tariffa «è applicata e riscossa dai soggetti affidatari del servizio di gestione integrata» (comma 3) e che la sua riscossione, volontaria o coattiva, «può» essere effettuata secondo le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, «mediante convenzione con l'Agenzia delle entrate» (comma 12)”.
A consuntivo del suo excursus normativo, la Suprema Corte affronta quindi la problematica centrale della valutazione della natura, tributaria o meno, delle varie ‘tariffe’ sui rifiuti solidi urbani, per come succedutesi nel tempo, intendendo precisare sul punto come “mediante numerose pronunce, [essa Corte abbia] indicato i criteri cui far riferimento per qualificare come tributari alcuni prelievi. Tali criteri, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina i prelievi stessi, consistono nella doverosità della prestazione, nella mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis: sentenze n. 141 del 2009; n. 335 e n. 64 del 2008; n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005). […] Quanto all'irrilevanza della denominazione, lo stesso art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce espressamente che i tributi vanno individuati indipendentemente dal nomen iuris («comunque denominati»). Inoltre, il termine «tariffa» - nella tradizione propria della legislazione tributaria - ha un valore semantico neutro, nel senso che non si contrappone necessariamente a termini quali «tassa» e «tributo», tanto che anche l'art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 testualmente prevede che la TARSU (cioè una «tassa» e, quindi, un «tributo») si applica «in base a tariffa». […] Dalla comparazione tra la TARSU e la TIA emergono le forti analogie dei due prelievi. Entrambi mostrano un'identica impronta autoritativa e somiglianze di contenuto con riguardo alla determinazione normativa, e non contrattuale, della fonte del prelievo. […] [Sia per la TARSU che per la T.IA.] il fatto generatore dell'obbligo di pagamento è legato non all'effettiva produzione di rifiuti da parte del soggetto obbligato e alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento, ma esclusivamente all'utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti ed alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento. In secondo luogo, in relazione ad entrambi i pagamenti, sussiste una medesima struttura autoritativa e non sinallagmatica, che emerge sotto svariati e concorrenti profili. In particolare, con riguardo ai due suddetti prelievi: a) i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti devono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono, in regime, appunto, di privativa, sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessi unilateralmente fissata; b) i soggetti tenuti al pagamento dei relativi prelievi (salve tassative ipotesi di esclusione o di agevolazione) non possono sottrarsi a tale obbligo adducendo di non volersi avvalere dei suddetti servizi; c) la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente del servizio. […] [L]a TIA - analogamente alla TARSU nella disciplina risultante dal disposto del comma 3-bis dell'art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993 (riportato al punto 6.1.2.) e dell'art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 – […] [h]a la funzione, cioè, di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e, quindi, non riconducibili a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente. L'unica sostanziale differenza sul punto tra i due prelievi si riduce al fatto che, mentre per la TARSU il gettito deve corrispondere ad un ammontare compreso tra l'intero costo del servizio ed un minimo costituito da una percentuale di tale costo determinata in funzione della situazione finanziaria del Comune (art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993); per la TIA il gettito deve, invece, assicurare sempre l'integrale copertura del costo dei servizi (art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997). Tuttavia, tale differenza non è sufficiente a caratterizzare in senso privatistico la TIA, perché nulla esclude che una pubblica spesa (come il costo di un servizio utile alla collettività) possa essere integralmente finanziata da un tributo”.
Interessata della questione per motivi legati all’individuazione della giurisdizione competente (ordinaria o tributaria), la Suprema Corte si esprime tuttavia anche in ordine alla collegata tematica dell’imposizione ad IVA delle tariffe/tributi così individuati, oggetto di nostro più diretto interesse ai fini del presente scritto.
Per quanto anticipato, pertanto, la Corte, nel 2009, concludeva che “ambedue i prelievi sono estranei all'àmbito di applicazione dell'IVA. Infatti, la rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l'entità del prelievo - quest'ultima commisurata, come si è visto, a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni - porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell'assoggettamento ad IVA ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e caratterizzato dal pagamento di un «corrispettivo» per la prestazione di servizi. […] Se, poi, si considerano gli elementi autoritativi sopra evidenziati, propri sia della TARSU che della TIA, entrambe le entrate debbono essere ricondotte nel novero di quei «diritti, canoni, contributi» che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006; come ribadito dalla sentenza della Corte di giustizia CE del 16 settembre 2008, in causa C-288/07) esclude in via generale dall'assoggettamento ad IVA, perché percepiti da enti pubblici «per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità» (come si desume a contrario dalla sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008), sempre che il mancato assoggettamento all'imposta non comporti una distorsione della concorrenza (distorsione, nella specie, non sussistente, in quanto il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa)”.
Questa, dunque, è la non semplice ricostruzione della questione relativa alla natura della Tariffa sui rifiuti solidi urbani sino al 2009, anno in cui la Suprema Corte ne ha autorevolmente e definitivamente definito la natura pubblicistica di ‘tassa’.
Tale conclusione, tuttavia, ha sollevato un delicato aspetto nei confronti degli Enti (pubblici) che gestiscono il servizio di smaltimento rifiuti, atteso che, sino ad oggi, tutti questi Enti continuano ad addebitare, oltre alla tassa, anche l’ammontare dell’IVA sulla stessa; addebito che si appalesa apertamente illegittimo per le motivazioni appena sopra descritte dalla Corte Costituzionale.
Ma se questo ‘indebito arricchimento’ da parte dello Stato e/o degli Enti gestori del Servizio avrebbe comportato, in qualsiasi paese liberale, un diritto da parte del consumatore/utente a vedersi rimborsare le somme indebitamente riconosciute ai soggetti di cui sopra, nel nostro Paese ciò non è così facile, atteso che, nel frattempo, è intervenuto, appunto, il ‘diavolo’ in uno dei suoi scivolosi, nascosti ed infidi ‘dettagli’…
Nel nostro caso, più precisamente, il ‘diavoletto’ ha le forme di un nascosto comma (n.33, l’ultimo) di un articolo (n.14) del D.L. n. 78 del 31 maggio 2010 (‘misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica’), convertito con L. n.122 del 30 luglio 2010, che, intitolato agli enti locali, ha previsto che “le disposizioni di cui all’art.238 del D. Lgs. n.152 del 2006 si interpretano nel senso che la natura della tariffa ivi prevista non è tributaria. Le controversie relative alla predetta tariffa, sorte successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria”.
A ciò, si aggiunga che il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con propria Circolare n. 3 dell’11 novembre 2010, ritiene che la disposizione precedente, applicabile alla ‘tariffa’ di cui all’art.268 del D. Lgs. n.152/2006 (c.d. ‘TIA2’), si debba applicare anche nei confronti della c.d. ‘TIA1’, ovvero a quella ‘tariffa di igiene ambientale’ prevista dall’art.49 del D. Lgs. n.22/1997.
Il tutto, ovviamente, con la conseguenza di annullare il buon diritto, da parte dei contribuenti, a non vedersi aggiungere l’IVA sui ‘tributi’ e rendere quantomeno complicato il recupero delle somme indebitamente percepite dallo Stato e dagli Enti locali gestori del servizio di smaltimento rifiuti…
A ben vedere, tuttavia, la norma lascia aperte le seguenti problematiche:
a)      Può una norma di (sedicente) ‘interpretazione autentica’ essere manifestamente contraria all’intrinseca natura giuridica di un tributo che si è obbligati a pagare per Legge?
b)      Può comunque, una norma emanata a metà 2010, applicarsi in via retroattiva per il periodo pregresso, ed annullare il buon diritto degli utenti a vedersi rimborsare l’IVA indebitamente pagata?
c)      Può il Ministero delle Finanze, in virtù di una sua ulteriore, ed ancora più estensiva ‘interpretazione’, applicare quanto detto per il Decreto del 2006, anche a quello del 1997?
Come è evidente, in questo caso davvero, ad una pentola del tutto ‘scoperchiata’ dalla Corte Costituzionale nel 2009 in favore di un indebito pagamento (da decenni!) dell’IVA sulla Tassa sui rifiuti solidi urbani, il Parlamento ha elaborato un diabolico ‘coperchio’ per tacitare ogni possibile azione risarcitoria, ma sarà davvero così?
Forse, a questo punto, solo le Corti, di Merito e di Legittimità, potranno fornire una definitiva risposta per il ripristino di una sentita esigenza di legalità.
(continua: vedi post del 17.10)
Avv. Antonio M. Polito

lunedì 3 ottobre 2011

U.S.A. c/ Reebok Intl.

L'agenzia americana statale posta a tutela dei consumatori (Federal Trade Commission), qualche giorno fa ha raggiunto un accordo con la casa inglese Reebok International, che si è impegnata a pagare 25 milioni di dollari per pubblicità ingannevole. Nel pubblicizzare, infatti, le scarpe da corsa Run Tone e le scarpe da passeggio Easy Tone, la Reebok assicurava glutei più sodi del 28% e polpacci più forti dell'11% a chi ne avesse fatto uso. La Federal Trade Commission ha aperto, sul proprio sito, questa pagina per raccogliere le richieste di rimborso degli acquirenti di tali prodotti.
Quando il nostro Garante del Mercato avrà gli strumenti e la forza di imporre accordi di simil specie?
Si potrebbe studiare anche da noi qualche strumento di tutela privatistico, iniziando a mandare un'esplicita richiesta di rimborso a Reebok ...