Modifica unilaterale dei contratti bancari di durata e diritto di recesso:
una ricognizione problematica.
Avv. Antonio M. Polito
Avv. Antonio M. Polito
                   L’intervento  dell’art.10 del d. l. del 4 luglio 2006, n.223, convertito, con  modifiche, con L. n. 248 del 4 agosto successivo, sulla disciplina delle  variazioni unilaterali delle condizioni contrattuali nei rapporti  bancari, ha determinato qualche incertezza interpretativa di non  secondaria importanza.
                  In  particolare, tali incertezze hanno riguardato i presupposti obiettivi  di una tale facoltà, e la ripartizione dei costi ad essa collegati. Un  documento di ‘chiarimenti’ da parte del Ministero dello Sviluppo  Economico del 27 febbraio 2007, tuttavia, ha inteso far chiarezza  sull’istituto, ma non tutti i motivi di perplessità sembrano fugati.
                  Si verificheranno pertanto le persistenti criticità del testo, pur dopo i chiarimenti governativi.
                  Un  primo aspetto dal quale si ritiene opportuno partire, pur se non  derivante da incertezze di natura letterale, è quello inerente la possibilità  di esercitare la facoltà di modifica unilaterale delle condizioni  contrattuali solo se espressamente prevista in contratto. Per essere più precisi, allora, converrà dire che tale ‘facoltà’ attribuita dalla Legge non riguarda i contratti di durata tout court, ma solo quelli per i quali sia stato espressamente ‘convenuto’  la possibilità di esercitarla. In altre parole, la legge di riforma non  ha reso tale facoltà ‘naturale’ ad ogni contratto di durata, bensì ne  ha reso legittimo l’inserimento pattizio (e, come vedremo, a certe  condizioni). Ribadiamo che il testo (riformato) del primo comma  dell’art.118 del Testo Unico Bancario (D. Lgs. 385/1993) è chiaro a  riguardo, ma riteniamo che tale fondamentale presupposto (operativo ed  interpretativo) sia, in qualche commento, non sufficientemente  sottolineato.
                  Tale  esplicita convenzione, deve poi rispettare tre presupposti  fondamentali, uno di natura formale e due di natura sostanziale, ovvero  che:
a)      sia possibile esercitare tale facoltà solo in presenza di un ‘giustificato motivo’;
b)      solo per fattispecie di variazione già previste in contratto (impossibile l’introduzione di clausole ex novo);
c)      sia  pattuita nel rispetto delle forme previste dall’art.1341 C.c., co. II  (la generale disciplina sulle ‘condizioni generali di contratto’, ovvero  l’espressa e separata sottoscrizione per iscritto).
                  A  tale facoltà, essendo attribuita in via del tutto eccezionale ad una  sola delle parti del contratto, viene riconosciuta specularmente, per  mantenere l’equilibrio sinallagmatico, una conseguente facoltà di  recesso da parte dell’altro contraente, che ha così la possibilità di  recedere, entro sessanta giorni e senza spese, da un contratto dalle  condizioni modificate e da lui mai accettate.
                  Tralasciando  le questioni inerenti l’ambito di applicazione soggettivo di tali  facoltà, definiti nella nota del Ministero genericamente come  ‘intermediari’ e che vengono dettagliatamente individuati, è opportuno  soffermarsi su due degli aspetti sopra elencati, partendo da quello del ‘giustificato motivo’.
                  Tale  aspetto, secondo la lettura del Ministero, può afferire sia alle  qualità del cliente, quali il suo ‘grado di affidabilità’, sia alle  variazioni di condizioni economiche generali che influiscano sui costi  operativi sostenuti dagli intermediari.
                  Sul punto, tuttavia, è opportuno formulare due osservazioni.
                  La prima è che, sempre secondo il disposto del comma I del novellato art. 118 T.U.B., anche la prospettazione del ‘giustificato motivo’ sembra dover rispettare i criteri dell’art. 1341 C.c.,  e pertanto si dovrebbe concludere, a nostro avviso, per una  comunicazione preventiva ed espressamente accettata e sottoscritta, pur  generica, degli elementi che possano rappresentare ‘giustificati motivi’  di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali. Il testo, sul  punto, ci sembra alquanto rigido e difficilmente compatibile con una  interpretazione meno rigorosa. Un mancato rispetto di tali formalità  dovrebbe comportare pertanto, anche in questo caso, l’inefficacia di  tali clausole, qualora fossero sfavorevoli per il cliente (ex art.118, co.III, T.U.B.).
                  La  seconda osservazione riguarda invece i costi operativi sostenuti dagli  intermediari che, secondo il Ministero, possono aumentare, variando così  le condizioni contrattuali, in ciò giustificando la facoltà di modifica  unilaterale. La peculiarità di tale previsione, tuttavia, è che tale aspetto funziona solo a favore dell’intermediario e non anche, in senso contrario, in favore del cliente.  Ovvero, se il costo per l’intermediario dovesse aumentare, quest’ultimo  potrebbe esercitare la facoltà di modifica unilaterale; al contrario,  se il cliente dell’intermediario dovesse avere conoscenza di un  intermediario che ha costi più bassi, non potrebbe godere lui stesso  della medesima facoltà (modifica salvo recesso)… . Certo, si è ben  consapevoli come possa ritenersi ingiustificato equiparare un soggetto  che dei costi ce li ha (l’intermediario), con uno che non ne ha (il  cliente), ma se ci poniamo nell’ottica delle parti all’interno di un  contratto, e di ciascuna di esse nel reciproco rapporto economico e  sinallagmatico, all’aumento del ‘rischio’ di una (il possibile aumento  dei costi) dovrebbe paragonarsi l’aumento del ‘rischio’ dell’altra  (vincolatività contrattuale a tempo indeterminato a fronte di altre  condizioni contrattuali più vantaggiose). Probabilmente, tuttavia, tale  limitazione può essere ritenuta compensata dalla previsione di cui  all’art.10, co.II, della L. 248/06 (sulla quale si legga infra).
                  Correttamente, infine, il chiarimento del Ministero evidenzia anche come il ‘giustificato motivo’  debba essere comunicato, affinché il cliente possa valutarne la  fondatezza e la congruità, ovvero contestarlo e difendere i propri  interessi.
                  Il secondo aspetto particolarmente delicato della normativa citata, è infine quello relativo alle spese in caso di recesso.
                  Da questo punto di vista, la disciplina, dopo la legge di conversione dell’agosto 2006, è diventata duplice,  atteso che, nello stesso articolo (art.10), sono contemplate due  fattispecie distinte, ovvero, sempre nell’ambito di contratti di  durata,:
a)      il recesso del cliente a sèguito di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali (co. I);
b)      il recesso del cliente, prevista come facoltà sempre liberamente esercitabile (co. II).
                  Il primo, infatti, viene disciplinato dal testo dell’art. 118, co. II, del T.U.B. (per come novellato dall’art.10, co.I, della L. 248/06),  in cui si specifica che il cliente, in caso di recesso a sèguito di  modifica unilaterale da parte dell’intermediario, possa esercitare il  suo diritto “senza spese”.
                  Il secondo, invece, viene disciplinato dal comma II dell’art.10 della L.248/06, esula pertanto il contenuto (e i limiti) del T.U.B. e specifica come “in  ogni caso, nei contratti di durata, il cliente ha sempre la facoltà di  recedere dal contratto senza penalità e senza spese di chiusura”.
                  Da  tale diversa disciplina, allora, e sulla base della maggiore ampiezza  della prima dizione rispetto all’altra, può argomentarsi che, mentre in  caso di recesso a sèguito di modifica unilaterale delle condizioni  contrattuali, al cliente non possa addebitarsi nessuna  spesa, l’esercizio del recesso non giustificato da modifica  contrattuale, possa comportare il pagamento da parte di quest’ultimo di  quelle spese che non rientrino in ‘penalità’, né in ‘spese di chiusura’.
                  Da qui, appare agevole concludere quella che potrebbe delinearsi come la ‘disciplina dei costi’  sopportati dal soggetto intermediario, che nel caso di recesso dovuto a  modifica unilaterale, non dovranno certamente essere addebitati al  cliente, mentre nel caso di recesso non giustificato da parte del  cliente, potrebbero trovare maggior motivo (giuridico e funzionale) per  una loro attribuzione a quest’ultimo.
                  Su  tale ultimissimo punto, peraltro, si specifica come le indicazioni date  dal Ministero nel 2007 siano discordi con la tesi qui sostenuta  (inglobando i ‘costi di chiusura’ nelle ‘spese di chiusura’),  ma anche discordanti, a nostro modesto parere, con il testo normativo,  ponendo una distinzione tra ‘costi di chiusura’ interni (non  addebitabili) e ‘costi di chiusura’ sostenuti da soggetti terzi  (addebitabili al cliente), che, salvo espressa pattuizione contrattuale  (e sempre che rispetti le formalità dell’art.1341, co.II, C.c.), non  essendo previsti da alcun dato normativo, non sembra giustificabile.
 
 
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